giovedì 12 febbraio 2015

Darwin Day 2015. La ricetta per curare la conflittualità religiosa globale? Non cercatela nel mondo greco-romano antico. Note su Elogio del politeismo di Maurizio Bettini



Illustrazione di un cane in atteggiamento umile e affettuoso. Da L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali di C.R. Darwin (1872). Fonte: Wellcome Trust via Wikimedia Commons.
«Il sentimento della devozione religiosa è molto complesso, consistendo di amore, di una completa sottomissione ad un essere superiore elevato e misterioso, di un forte sentimento di dipendenza, di paura, di riverenza, gratitudine, speranza per il futuro, e forse di altri elementi. Nessun essere potrebbe provare un’emozione così complessa senza avanzare nelle sue facoltà intellettuali e morali fino a un livello moderatamente elevato. Nondimeno, vediamo un pallido segno di avvicinamento a questo stato della mente nel profondo amore di un cane per il suo padrone.» [1].
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Con queste parole Darwin siglava il penultimo paragrafo della prima sezione del “Confronto tra le facoltà mentali dell’uomo e degli animali inferiori” ne L’origine dell’uomo. Se collochiamo brevemente il passaggio nella contesto del capitolo che lo contiene, l’estratto è situato tra due paragrafi di importanza capitale. Poco prima troviamo il celebre passaggio sul cane spaventato dal parasole che viene agitato dal vento, percepito dal segugio domestico come «strano agente animato» [2]. Un passaggio semplice ed efficace, diventato celebre nelle scienze cognitive della religione per dimostrare la continuità evolutiva di grado e non di genere, per usare termini darwiniani, tra Homo sapiens e animali non-umani: «la credenza in agenti spirituali potrebbe facilmente trapassare nella fede in una o più divinità» [3]. Come ha sintetizzato Matthew Day, «Per il modo in cui Darwin guardava al mondo, non c’è a prima vista nulla di fantasioso nel ritenere che le idee elementari della religione potessero ritrovarsi negli animali» [4]. E tuttavia quel modo di vedere era rivoluzionario.


Si tratta di un punto fondamentale. È stato sostenuto in modo convincente che il tentativo darwiniano di decostruire l’unicità umana della religione, scomponendo quest’ultima in blocchi graduali e continui nel tempo profondo dell’evoluzione, soggiacesse alla volontà di denunciare e di rinunciare alle violente forme di oppressione etnocentrica e razzista tipiche del modello socio-politico imperialista allora in voga [5]. La religione, difatti, è un potente instrumentum regni. Non è solamente un ente volto alla promozione della cooperazione tra gruppi umani (un aspetto sul quale si è concentrata buona parte della contemporanea ricerca cognitivista) ma anche, o soprattutto, una forma di controllo volta alla redistribuzione, spesso diseguale e cleptocratica, del potere socio-politico e alla supervisione coercitiva dei ruoli e delle dinamiche socio-sessuali all’interno del gruppo sociale. Gary Lease ha notato questo punto in un passaggio particolarmente icastico: «le religioni riguardano potere, il potere che ti viene concesso e il potere che ti controlla» [6].

Inoltre, la religione accumula tradizioni e le codifica incastonandole nel deferente rispetto all’autorità, indifferente riguardo alla razionalità o alla praticità di quanto tramandato. Dal punto di vista funzionale e storico, esse diventano complicatissime macchine di Goldberg, ossia meccanismi arzigogolati che hanno semplici scopi pratici (in questo caso socio-cognitivo; ne discutevamo qui), ma che per raggiungerli ricorrono a miriadi di bizzarri, superflui e paradossali passaggi secondari [7].

Come continua Darwin nel secondo passaggio che vorrei qui sottolineare,
«Le stesse facoltà mentali che dapprima portarono l’uomo a credere in agenti spirituali invisibili, poi nel feticismo, poi nel politeismo, e infine nel monoteismo, lo porterebbero infallibilmente, finché i suoi poteri razionali restano scarsamente sviluppati, a varie strane superstizioni e abitudini. Molte di queste sono terribili a pensarci – come il sacrificio di esseri umani a una divinità assetata di sangue, le prove del veleno e del fuoco su persone innocenti, la magia, ecc. – tuttavia è bene riflettere occasionalmente su queste superstizioni, poiché ci mostrano quale debito infinito di gratitudine dobbiamo all’aumento della ragione, alla scienza, alla conoscenza accumulata» [8].
Darwin non discute di genere e identità e ricalca qui un evoluzionismo antropologico fatto di stadi di credenze (aspetti sui quali non possiamo soffermarci ora; si veda il volume di Desmond e Moore in merito [8bis]), ma pensiamo solamente alle donne nell’antica Roma politeista, le quali non erano ritenuti soggetti epistemicamente conoscenti né degni di fede perché estranee per lo stato, straniere in casa e dedite ad attività che destavano sospetto nei familiari di sesso maschile, come le artes magicae e la preparazione di venena (poco importa se in realtà si tratta di conoscenze fitoterapiche). Insomma come gli schiavi, le donne erano soggetti potenzialmente sempre pronti a mettere a rischio l’equilibrio instabile dell'immaginaria pax deorum e a cospirare contro la pax hominum. E pertanto, in occasione di crisi socio-politiche, venivano spesso scelte come capri espiatori, sottoposte a processi e condannate in virtù di associazioni magico-religiose (se ne parlava a queste coordinate). Convergono, e deflagrano, qui tutti i temi elencati in precedenza: religione e superstizioni, controllo sociale e magia.
Insomma, ce n’è abbastanza da chiudere definitivamente ogni capitolo velatamente nostalgico.

Copertina di Bettini, M. (2014). Elogio del politeismo. Bologna: il Mulino.
Eppure, un libro pubblicato di recente dall’antropologo del mondo antico Maurizio Bettini, intitolato
Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche [9], propone come cura per la conflittualità religiosa globale contemporanea proprio il recupero dei capisaldi filosofici e teologici del politeismo greco-romano. E qui vorrei dedicare qualche riflessione sul testo di Bettini alla luce del monito darwiniano ricordato più sopra.

L’analisi dell’autore presenta senza dubbio spunti interessanti (soprattutto la prima parte sulle varie idee antiche in merito all’interpretazione dei culti diversi dal proprio – per quanto di carattere generale e perlopiù già noto agli antichisti che conoscono gli altri lavori di Bettini, come l’eccellente Affari di famiglia [9 bis]), ma elogiare il politeismo per quello che potrebbe rappresentare oggi è quanto di più bizzarro per uno storico vi possa essere: davvero l’interpretazione reciproca (o la plutarchea “assimilazione per congettura”) può essere considerata come il viatico per una condizione di idilliaca pace socio-politico e religiosa?

Il compromesso tra diversi culti in virtù di una storia delle religioni come metateologia mondiale è già stato suggerito (per esempio) da Wilfred Cantwell-Smith (1916-2000), ed è ingenuamente fondato sulla fallacia logica dell’argumentum ad judicium o ad populum, ossia sul presupposto che se (quasi) tutti credono in qualcosa, allora qualcosa ci deve essere. Tale presupposto può funzionare solo fingendo che l’atto esistenziale del credere in agenti controintuitivi e sovraumani abbia sufficiente validità epistemica in quanto livello di conoscenza in merito al mondo reale da poter essere sostenuto e impartito negli apparati conoscitivi dell’accademia a livello (inter)nazionale. Sia quel che sia, questo assunto intuitivo del “consenso generale” è stato smantellato dalle scienze cognitive, e prima ancora dalla rivoluzione darwiniana (per non parlare della filosofia nella storia dell’ateismo). Come ricordato altrove, nonostante il lodevole richiamo all’abbandono di posizioni “x-centriche”, si tratta di un atteggiamento (cripto)teologico che esula dai confini di una disciplina scientifica e accademica, e che in ultima istanza fallisce nel tentativo utopico di “purificare” lo studio delle religioni attraverso la condivisione disciplinare di una sorta di meta/sovrateologia mondiale. Ne consegue che o si è in malafede, magari ingenuamente, oppure siamo ancora nell’ambito dell’equivoco di un pensiero autoritario mascherato da libertà sociale [9tris]. Oppure, come Benjamin Franklin in una lettera privata, si può cinicamente optare per una Realpolitik religiosa e ritenere che, comunque vada, la religione pone un utile freno morale per le masse ignoranti [10]. Perché tutto si può dire sul politeismo salvo che davvero fosse “liberatorio”: la religione è sempre manipolazione all’interno dei quadri di gestione del potere, e il mondo greco-romano ne è solo una delle espressioni tra molte varianti e combinazioni storiche disponibili.

Davvero si può essere così ingenui da pensare che proporre l’adozione di generici “quadri mentali” (secondo l’etichetta usata da Bettini, purtroppo non supportata da alcun background cognitivista) propri del politeismo all’interno dei monoteismi mondiali e attuali sia una posizione oggettivamente sensata? Evidentemente sì, e il quadro di riferimento nel quale questa proposta si inserisce è tipico di quella storia delle religioni italiana (cui l’autore fa riferimento nelle note) che sulla falsariga di una metateologia fondata su un fantomatico “dialogo interreligioso” continua a produrre lavori grossomodo privi di validità epistemica e, ciò che più conta, del tutto slegati dal contesto del mondo reale. E si ripropongono ex novo, in modo forse inconsapevole, i vincoli delle relazioni di potere che vigono all’interno dei discorsi religiosi [10bis].

Vogliamo tornare ancora una volta sulla libertà di genere all’interno del “tollerante” politeismo greco-romano? Per quanto sia dimostrato che in alcuni casi le nuove religioni del mondo mediterraneo antico abbiano agito come fattore di empowerment all’interno di gruppi sociali prima ai margini della gestione del potere, non credo nessuno voglia mettere in discussione il fatto che sulla lunga durata (che è quella che poi dovrebbe importare in un’analisi come quella proposta da Bettini) i monoteismi abramitici non abbiano fatto altro che rinforzare la preesistente autorità di genere (androcentrica). Leila Ahmed, ad esempio, ha proposto letture molto interessanti in questo senso [11]. Il filone dell’antropologia del Mediterraneo ha avanzato tesi discutibili ma certamente pertinenti in chiave di discussione storiografica, che in Elogio del politeismo però sono del tutto assenti, nonostante la specializzazione di Bettini.

Non deve stupire quindi che nella mitografia romana, Romolo avesse previsto la possibilità di divorziare dalla propria moglie in una serie di casi precisi: l’uso di magia e/o di erbe a fini abortivi, assieme all’adulterio e alla contraffazione della chiavi dell’abitazione. Il bere del vino e l’avvelenamento (in rapporto a quelle conoscenze fito-farmacologiche sempre sospettate di essere nefaste artes magicae) erano invece ragioni più che sufficienti per la punizione capitale delle donne coinvolte [12]. E il rapporto tra paura della magia – come attività perseguita ai danni degli uomini da parte di un altro diverso da sé (versione di quell’esasperato timore che nella mentalità maschile romana accomuna schiavi e donne) [13]  e controllo femminile secondo i dettami della religione istituzionale, trovavano nelle sacerdotesse Vestali, vergini per mandato istituzionale e religioso, la forma sintetica più efficace:
«la vergine Vestale penetrata [e colpevole di incestum, un termine legale-religioso dall’accezione piuttosto ampia] diventa una strega; ovvero, quando c’era bisogno di una strega [ossia, un capro espiatorio], una vestale veniva accusata di essere stata penetrata. Qui vediamo all’opera uno degli usi più frequenti della stregoneria: proteggere gli altri sistemi di valore. Il fallimento del rituale sacro può essere attribuito alla stregoneria, e in modo specifico al tradimento perpetrato da quegli stessi tecnici del sacro il cui dovere era quello di condurre i rituali che avrebbero dovuto proteggere la società» [14].
L’«ossessione romana per la castità femminile» [15], tema sul quale peraltro si potrebbe discutere a lungo in termini etologici di violenta competizione maschile e di controllo coercitivo della partner, raggiunge probabilmente l’apice con quelli che Eva Cantarella etichetta come «i grandi processi alle avvelenatrici» durante l’età repubblicana [16]: il reato di veneficium, contiguo ai timori sulle artes magicae nutriti dai mariti, è forse il più tipico crimine femminile. La cosa interessante è che, dopo un momento in cui l’assenza dei mariti causata dai lunghi impegni bellici promuove un maggior impegno sociale e maggior libertà nella gestione patrimoniale, il ritorno al normale status quo postbellico instilla nei congiunti riuniti «un’atmosfera di diffidenza e di sospetto» [17bis], modellati dalla tradizione mitografica e mitocratica locale, ovvero dall’immaginazione androcentrica del potere a sua volta basata su uno specifico storytelling sessuale e culturale. «A questo punto», commenta Cantarella, «bisogna concludere che delle due l’una: o le donne avevano veramente una deplorevole tendenza a maneggiare veleni, o gli uomini erano terrorizzati da questa possibilità. E per Catone, inutile dirlo, la soluzione giusta era la prima. Ormai tutte le donne erano adultere, diceva, e “a Roma non c’è adultera che non sia un’avvelenatrice”» [17]. Per dirla in termini sociologici attuali, si vede qui probabilmente agire il fenomeno sociologico di «recrudescenza della violenza» [18] noto come backlash, e che nella definizione offerta da Chiara Volpato comprende «reazioni ostili poste in atto da quegli uomini che non accettano di perdere il controllo sulla cerchia familiare, come indicato dalle frequenti aggressioni subite da donne che hanno rotto o intendono rompere una relazione o che manifestano la volontà di vivere secondo schemi diversi da quelli tradizionali» [19].

E tutto questo quadro sociale, vorrei sottolinearlo, era vigorosamente sostenuto e istituzionalizzato dall’immaginaria controparte sociale maschile, ossia dal pantheon romano. Emblematico il culto dedicato a Bona Dea, la cui eziologia rituale (stando alle testimonianze di Lattanzio) aveva un perno fondamentale nel fatto che la protagonista del mito viene scoperta a bere vino puro di nascosto. Di conseguenza la protagonista, come sarebbe capitato a qualunque donna, viene punita a morte (privatamente) dal marito Fauno (mitico re latino), e ciò coincide con l’infrazione di una norma sessuale e religiosa, ma prima ancora sociale, per cui la donna può diventare in potenza “attiva”, prevaricando in modo anormale le abitudini maschili. Ma nel libro di Bettini delle questioni di genere/gender non c’è traccia.

Vorrei insistere ancora un momento su un fatto che si rivela sconcertante e che realizza quel controllo sociale di dominio così difficile da scardinare dall’interno. L’uso stesso della magia o, meglio, la realizzazione di un veleno grazie alle eventuali conoscenze pratiche e frutto tipico di una “genderizzazione” dei saperi che relega la conoscenza dei filtri botanici alla magia, e perciò consegna alle donne un’attività socialmente inferiore (cui pure gli uomini si dedicavano), forza le donne a rientrare nel medesimo loop del dominio sociale dal quale vorrebbero uscire – non potendo o riuscendo ad organizzarsi socialmente e politicamente. Come ha notato in modo opportuno Pierre Bourdieu,
«Le stesse strategie simboliche che le donne adottano contro gli uomini, quelle della magia per esempio, restano dominate perché l’apparato di simboli e di operatori mitici che attivano o i fini che perseguono (come l’amore o l’impotenza dell’uomo odiato o amato) traggono fondamento dalla visione androcentrica in nome della quale esse sono dominate. Insufficienti a sovvertire realmente il rapporto di dominio, tali misure ottengono almeno il risultato di offrire conferme alla rappresentazione dominante delle donne come esseri malefici la cui identità, tutta negativa, è costituita essenzialmente da interdetti, fatti per produrre altrettante occasioni di trasgressione […]» [20].
E, non a caso, nel tempio di Bona Dea si trovavano erbe officinali (stando a Macrobio). Restiamo di fatto ancorati al controllo socio-sessuale delle donne. Ancora convinti che il magnanimo politeismo antico garantisse pacifiche convivenze religiose? Ma forse a Bettini non importa soffermarsi sulle libertà individuali, e in particolare su quelle femminili.

Inoltre, estrapolare un caso nel passato per proiettare sul presente un wishful thinking è quanto di più Whiggish uno storico possa fare (e che Darwin, il più grande storico mai esistito, avrebbe evitato): forse che il politeismo lato sensu (ammesso e non concesso che si possa utilizzare questa etichetta estrapolandola dal suo contesto originario) nel subcontinente indiano non ha prodotto nel passato o nel presente alcun tipo di violenta intolleranza? O nel Giappone moderno e contemporaneo? Le religioni sono tutte in parte (o soprattutto, dipende dal punto di vista) meccanismi per la gestione del potere e, come ha scritto Jonathan Z. Smith, «la religione non è buona [nice]; è stata responsabile di morte e sofferenza più di qualunque altra attività umana» [21]. L’ultimo volume di Steven Pinker, dove si sostiene dati alla mano che il graduale declino della violenza (qualunque tipo di violenza sociale e individuale) sia stato raggiunto grazie all’interazione di più fattori storici prodotti in epoca moderna (ossia, nascita dello stato-nazione e del sistema giudiziario; commercio su larga scala; maggiore attenzione alla condizione femminile; cosmopolitismo; su tutto, l’uso critico e continuo della ragione [22]), avrebbe forse aiutato a collocare in una prospettiva meno religiocentrica e più corretta alcune idee di Bettini. Perché altrimenti guardare indietro e vagheggiare un mondo migliore celebrando il prestigio ideale di una certa società (comunque sia, bene o male, ricostruita) può anche funzionare come arma retorica contro il dogmatismo delle istituzioni religiose (si veda, ad esempio, la bella lettura decostruttiva che Bettini dedica al Catechismo cattolico), ma se non ci si accorge che quel passato greco-romano e politeistico che si elogia è giocoforza ancorato ai medesimi meccanismi di gestione del potere allora quello che si vuole proporre è un pamphlet e non la seria analisi storica che ci si attende.

Ultimo punto: il finale del volume delude le aspettative riguardo a quanto di buono si poteva effettivamente salvare. Secondo l’opinione di Bettini, i social network e l’attuale ruolo declinante della scrittura dovrebbero incidere nel futuro prossimo venturo o imminente come solvente in merito al dogma della parola rivelata e trascritta delle religioni abramitiche.

Ora, se si parla di cambiamento di tecnologie di produzione e di fruizione è un discorso lecito (così come altrettanto legittimo e persino palese è pensare che le nuove tecnologie di comunicazione abbiano/avranno un impatto determinante sulle organizzazioni religiose – nel bene o nel male), ma è davvero difficile affermare che oggi la scrittura e/o la lettura stiano attraversando un inesorabile “crepuscolo”, secondo l’etichetta scelta dall'autore. Ad ogni modo, Bettini non presenta alcun dato a sostegno dell'ipotesi e non presenta alcuno studio quantitativo in merito. Rimane solo un’ipotesi azzardata senza prove sufficienti, che tradisce uno sguardo desueto sulle nuove tecnologie (basti pensare all’esplosione di mezzi digitali per fruire dei contenuti scritti). Detto per inciso, e non considerato in Elogio del politeismo, le nuove tecnologie possono anche rafforzare lo status quo. E non è detto che sia un bene. Prendiamo la maggiore innovazione tecnologica precedente alla digitalizzazione della scrittura: in Europa, l'invenzione della stampa è servita come mezzo di diffusione della Riforma protestante contro il controllo sul testo sacro e come strumento per scardinare la sudditanza politica legata all’osservanza statale dai dogmi teologici, ma in Cina la stampa aveva precedentemente rafforzato il potere dell’apparato statale e favorito la creazione di una burocrazia la cui Weltanschauung era imperniata sulla conoscenza dei dogmi statali confuciani. Per non parlare della stampa nel mondo islamico, che ha sortito a livello generale l’effetto opposto di quello ottenuto nell’Europa moderna (di tutto ciò se ne parlava qui). Si tratta di “esperimenti naturali di storia”, per usare la definizione di Jared Diamond e James Robinson [23], esperimenti che nel testo di Bettini però sono del tutto assenti. Come può allora l’autore, senza alcuna citazione di testi aggiornati sull'argomento, pensare di proporre addirittura una previsione imminente sull’evoluzione nel rapporto tra digitale e religioni?

Per concludere, torniamo ora a lidi più consoni. I cervelli sono macchine biologiche per elaborare spontaneamente e in modo incessante l’informazione neurale in modo darwiniano ossia, nelle parole di Terrence Deacon, premiando in quella stessa computazione e attraverso una selezione competitiva i modelli espressivi che possiedono potenziali e più vaste applicazioni all’interno dei network neurali. Questi modelli emergenti diventano l’espressione del «bisogno di ricodificare le nostre esperienze, di vedere tutto come una rappresentazione, di aspettarci una logica più profonda e nascosta» [24]. Tutto deve essere manifestazione di qualche logica superiore che, non a caso, è sempre banalmente inscritta nei processi sociali umani [25]: gli dèi, gli spiriti, gli antenati e tutti gli agenti controintuitivi e invisibili agiscono come se lo scopo ultimo del superiore cosmo invisibile fosse semplicemente adeguarsi a quella specifica norma umana di quel particolare contesto storico per regolarlo, sancirlo e punire chi non vi si attiene. E questo in ogni società storiograficamente nota.

Però, come notava Gilberto Corbellini (e come già riportato in un altro post), queste medesime associazioni arbitrarie sono espressione dello stesso meccanismo che, se posto sotto continuo controllo, ha permesso, e permette tuttora, anche lo studio scientifico. Le connessioni pseudoscientifiche della magia, inscritte nel contesto socio-religioso di un dato momento storico, non sono altro che «lo stato di default del modo di funzionare della nostra mente, in assenza di un’istruzione che la guidi a confrontarsi con i fatti». Da una prospettiva cognitivista, «Il pensiero magico si sviluppa come un modo spontaneo di categorizzare i cambiamenti nell’ambiente sulla base dell’imprinting cognitivo che ci induce ad attribuire, in assenza di esperienze correttive, cause invisibili e animate nello scenario circostante. Il nostro cervello è facilmente ingannabile, funziona sulla base di illusioni e autoinganni» [26]. Si tratta in fin dei conti del surplus di capacità computazionale che è frutto dell’evoluzione, in quanto riserva di continui e possibili adattamenti, e che pur sbagliando profondamente sulla qualità e sulla quantità di pattern individuati nel mondo (dai fatti insignificanti che sarebbero legati a un destino ultramondano, fino alle inesistenti cospirazioni globali più o meno occulte), ha anche permesso di cercare «cause non direttamente percepibili attraverso processi di astrazione e manipolazione dell’esperienza» [27], grazie all’esercizio del «pensiero astratto stabilendo collegamenti tra diversi domini e sottodomini cognitivi» [28] e facendo appello alla metacognizione, ossia «operazioni mentali su processi che sono essi stessi operazioni mentali» [29].

Pertanto, mai come ora è bene ripensare con attenzione a quelle superstizioni magico-religiose ricordate  sopra, “[…], poiché ci mostrano quale debito infinito di gratitudine dobbiamo all’aumento della ragione, alla scienza, alla conoscenza accumulata” [30]. E’ tempo di tornare alle radici darwiniane dello studio scientifico della religione non solo come mera etologia di H. sapiens, ma anche come dispiegamento delle capacità cognitive – talvolta fallaci, talaltra efficaci – del nostro taxon. E alla fine, se proprio si vuole elogiare il mondo greco-romano antico per qualcosa, credo che la conquista intellettuale più importante, duratura e degna di essere celebrata sia quella relativa alla discussione filosofica delle scienze naturali e applicate, lasciando la porta aperta al dubbio costruttivo contro il principio di autorità, e contro le spiegazioni naturali imposte teologicamente. In altri termini, e volendo rimanere nell’ambito di Bettini, la razionalizzazione, la demistificazione del mito e della teologia in ogni ambito [31].
E questo, a Darwin, non sarebbe affatto dispiaciuto, dato che nel Disegno storico sull'evoluzione del concetto di origine delle specie, aggiunto per la prima volta nella terza edizione dell'opus magnum L'origine delle specie (datata aprile 1861), citava Aristotele tra i precursori naturalistici [32].

Buon Darwin Day 2015!


[1] Darwin 2013 [1871]: 947.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem. Cfr. Guthrie 2014.
[4] Day 2008: 59.
[5] Day 2008; Desmond e Moore 2012.
[6] Lease 2009.
[7] McCauley 2011.
[8] Darwin 2013 [1871]: 947.
[8bis] Desmond e Moore 2012.
[9] Bettini 2014.
[9bis] Bettini 2009.
[9tris] Cfr. Ferraris 2012.
[10] Franklin 1757, lettera privata: “But think how great a Proportion of Mankind consists of weak and ignorant Men and Women, and of inexperienc’d and inconsiderate Youth of both Sexes, who have need of the Motives of Religion to restrain them from Vice”.
[10bis] Franek 2014.
[11] Ahmed 2001.
[12] Levick 2012: 101. Cfr. Cantarella 2010: 61 ss.
[13] Veyne 1992: 45
[14] H.N. Parker 2004: 582.
[15] Henry e James 2012: 90.
[16] Cantarella 20107b : 70 ss.
[17] Ibi: 73 (cfr. Plut., Cato maior, 9, 11; Quintil., Inst. Orat., V, 11, 39).
[17bis] Ibi: 71.
[18] Volpato 2013: 85.
[19] Ibi: 86.
[20] Bourdieu 2009: 42
[21] Smith, 1982: 10.
[22] Pinker 2011: xxv-xxvi.
[23] Diamond e Robinson 2011.
[24] Deacon 1997: 436
[25] Ibidem.
[26] Corbellini 2013: 48-49.
[27] Ibi: 49
[28] Ibi: 51
[29] Ibi: 57.
[30] Darwin 2013 [1871]: 947.
[31] Cfr. Hawes 2014.
[32] Darwin 2013 [1859]: 537.

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