sabato 31 maggio 2014

Et voilà! Il coniglio dal cappello, ovvero a cosa fare attenzione quando si tratta di metodologia nella ricerca storica

«Venghino signori, venghino! Le mirabolanti imprese di magia, prestidigitazione e relativismo storico postmodernista!».
Ok, forse la didascalia originale non recitava proprio così...
Immagine originale datata 1899 e restaurata digitalmente dagli utenti trialsanderrors e Morn di Wikipedia.
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Alla fine del post precedente (se non l’avete letto, eccolo qui), ci eravamo lasciati pensando a come il modello di studio storiografico invocato dal gruppo delle Annales si possa considerare ipso facto una scienza. Secondo alcuni commentatori, la questione è fuori discussione già in partenza. Immanuel Wallerstein, ad esempio, ha descritto nel modo seguente il modello braudeliano di una storiografia scientifica:
«la storia per Braudel era una scienza. Non aveva timore del termine “scienza”, premesso che uno sia in grado di comprendere come vada fatta la scienza, ossia in relazione con i dati reali. Si deve procedere dalla teoria ai dati e poi di nuovo alla teoria. Si deve continuare ad andare avanti e indietro fino a che, alla fine, non ne esce fuori qualcosa di plausibile» [1].
Attenzione, però, perché plausibile non significa veritiero o empiricamente fondato. Limitarsi ad una immane raccolta di dati non equivale a sperare che il pattern plausibile emerga da sé, come il proverbiale coniglio dal cappello: quali sarebbero i criteri precisi per arginare il wishful thinking mediato dagli apriorismi epistemologici e metodologici o dai bias psicologici che tendono a confermare la propria visione dei dati? Non è detto che il proprio punto di vista sia quello giusto.

Prima delle Annales, in effetti, la storiografia in quanto disciplina accademica esaminava i dati e giudicava i fatti storici sulla base di criteri aprioristicamente monocausali. John Arnold, nel suo breve volume introduttivo alla concezione disciplinare della storia (o, per dirla altrimenti, un libro dedicato alla storia della storia), ha scritto che lo studio della mentalité tipico delle Annales «è sorto come una via di fuga dal senso comune che informava l’approccio della storia politica, il quale assumeva che i re, i consiglieri e i governanti decidessero sulla base delle medesime basi razionali dello storico» [2]. Ora, se c’è una cosa che le scienze cognitive hanno confermato e dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio è proprio la decostruzione del mito dell’agente sociale (economico o storico) che opera sulla base della scelta razionale. E fin qui non ci piove, con buona pace di chi ancora usa la rational choice theory come paravento per giustificare la legittimità razionale di particolari scelte ideologiche o teologiche. Così come è palese affermare (con il senno di poi) che la storiografia ottocentesca dei primordi, presa tra gli strascichi del romanticismo misticheggiante e l’invenzione (e il furore) delle identità nazionali, non fosse poi molto oggettiva – e d’altra parte si può discutere quanto quella disciplina in fasce fosse piuttosto una Geistwissenschaft, nella quale la revisione dei dati rimane confinata all’interno dell’arena dei dibattiti e delle discussioni tipicamente umanistiche, che una Naturwissenschaft, ossia una ricerca basata sulla verifica matematica dei dati empirici e sulla costruzione di modelli [3].

Il punto è che nel periodo press’a poco coevo alla svolta delle Annales (fondate nel 1929) ha cominciato a far presa un certo relativismo storico che ha considerato come un miraggio quell’oggettività cui aspirava la storiografia fin dalla sua nascita come disciplina accademica. Insomma, cercare il fatto accaduto ed asseverarne la veridicità sarebbero una fata morgana: esistono i documenti che descrivono i fatti, non i fatti stessi, irrintracciabili, né tantomeno la “verità oggettiva”. Forse l’esempio più eclatante è quello fornito dalla storia delle religioni la quale, dopo un promettente inizio sotto l’egida dell’analisi empirica dei dati, è scivolata velocemente verso un approccio metodologico che, secondo Luther H. Martin, si è tradotto nell’«assemblaggio di un corpus fenomenologico di dati culturali troncati e decontestualizzati, la cui temporalità è stata scartata a favore di affermazioni sulla presunta manifestazione di una sacra realtà sui generis» [4]. Se il documento attesta che il santo ha levitato, allora il santo ha levitato, e se viene descritto che lo sciamano ha proiettato il suo corpo spirituale nell’aldilà (qualunque cosa significhi), allora l’analisi deve riportare il dato filologicamente. Che poi questa filologia abbia rappresentato la breccia per l’ingresso nell’accademia di ogni sorta di fideismi criptote(le)ologici, o di simpatie per il paranormale, è oggi un fatto appurato [5]. In questo caso, il matrimonio entusiastico con quei bias cognitivi tipici del senso comune, e che la ricerca storiografica dovrebbe invece sforzarsi costantemente di arginare e controllare, continua ancora oggi – e non a caso la sottodisciplina storiografica è entrata in una crisi probabilmente irreversibile [6]. Per quanto sorprendente, questo è solo un caso storiografico tra i molti.

Dopo la seconda metà del Novecento l’esplosione del modello post-strutturalista ha condotto alla diffusione intellettuale del variegato ambito postmodernista, i cui sviluppi più estremi hanno condotto a interpretare la scienza come lo strumento privilegiato dall’Occidente per gestire le relazioni di potere con il mondo intero, e l’immagine degli scienziati è diventata quella di agenti profondamente condizionati dai vincoli sociali e dalla cultura loro contemporanea. Lo studio scientifico del dato storico e la lezione delle Annales sono così naufragati.
Certo, anche nella scienza sono possibili manomissioni ideologiche, teologiche, fideistiche o politiche più o meno palesi, ma rendersi conto degli errori umani (anche di quelli commessi dagli scienziati, soggetti come tutti gli esseri umani a errori di valutazione) e, di conseguenza, decostruire e correggere le manipolazioni intenzionali non vuol però dire che la scienza sia da rifiutare tout court, come vorrebbero invece certe frange intellettuali postmoderniste. La sociologia della scienza, ossia il ritenere che le idee nascono e si diffondono in un determinato contesto sociale che le vincola e le veicola, è ormai un dato acquisito nelle analisi storiografiche, ma non si può sminuire il fatto che la maggior parte del post-strutturalismo umanistico abbia colpevolmente condotto agli eccessi questa tematizzazione, arrivando a ritenere tutta la scienza come una creazione intellettuale condizionata e perciò ontologicamente discutibile, non veritiera o del tutto superflua, e revisionando o negando la validità analitica degli schemi storiografici (e scientifici).

Ora, la revisione dei dati e dei modelli acquisiti non è solo legittima ma necessaria; senza scomodare Popper e Kuhn (per ora), si può semplicemente affermare che la revisione non deve travalicare i confini delle prove documentarie valutate con raziocinio scientifico (ossia, controllando i bias psicologici impliciti cui tutti, bene o male, siamo soggetti) e ricordando, come ha affermato Carl Sagan, che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Le quali, spesso e volentieri, mancano. Volere ardentemente che un determinato fatto abbia avuto luogo, anteponendo fede o apriorismi ideali e ideologici ai dati che si possiedono, non equivale a inverarlo! Come ha scritto Eva Cantarella a proposito dell’ipotesi di Marjia Gimbutas in merito ad un (idilliaco) matriarcalismo preistorico eurasiatico, «[…] la storia non è fatta di desideri. È scritta su documenti, su prove, o quantomeno su indizi, molti e concomitanti. Che nella fattispecie, purtroppo, sembrano insufficienti» [7].

Invece, molto più di quanto non abbia fatto il relativismo storico precedente, la breccia aperta dal postmodernismo si è rivelata difficilmente sanabile. Tutto questo, come hanno notato Michael Shermer e Alex Grobman in un volume lodevolmente impegnato nella demolizione scientifica dei fallaci presupposti epistemologici propugnati dai negazionisti della Shoah, è stato il “terreno di coltura” dei negazionismi storiografici più deleteri e vergognosi, dello scetticismo umanistico nei confronti della scienza (prendiamo solo la sconcertante diffusione dell’antivaccinismo) e del credito intellettuale concesso a quelle che altrimenti sarebbero pseudostorie e vaneggiamenti fanta-cospirazionisti senza diritto di cittadinanza nel sapere accademico [8]. Il quadro si è fatto molto confuso, e nel calderone postmodernista c’è finito tutto e il contrario di tutto.

Pensiamo all’intreccio nefasto tra le legittime e necessarie rivendicazioni dei diritti politico-sociali e le ideologie più retrograde (come quelle creazioniste e negazioniste). Le idee dell’antropologo nativo statunitense Vine Deloria Jr. rappresentano bene questo filone: secondo Deloria la creazione divina attestata nelle mitologie locali confermerebbe la presenza delle popolazioni native sul suolo americano da sempre (dove avrebbero convissuto con i dinosauri) e, dato che le mitologie sono tutte ugualmente valide, la scienza occidentale sarebbe una mitologia come le altre [9]. Chiaro, c’è dietro tutta una disgustosa pagina di sopraffazione, sterminio e conquista, ma perché reagire confondendo il doveroso impegno sociale con la negazione della scienza? Alan Sokal, citando un altro lavoro, ha commentato nel migliore dei modi possibili: «Non c’è nulla di veritiero, saggio, umano» nel garbuglio intenzionale dell’avversione contro ogni forma di ingiustizia e di oppressione con «l’ostilità verso la scienza e la razionalità (che è nonsense)» [10]. Ancora, la frangia più antiscientista del femminismo postmodernista ha reagito contro il maschilismo che ancora funesta la società occidentale affermando che la scienza sarebbe uno strumento di dominio androcentrico e niente di più (ne avevamo parlato qui qualche tempo fa). Richard Dawkins ha condensato bene l’eventuale risposta nei seguenti termini: «No, la ragione e la logica non sono strumenti maschili di oppressione, e ipotizzare che lo siano è un’offesa alle donne» [11]. Infine, si prenda il modello di Jared Diamond che recupera e aggiorna l’intuizione braudeliana e della scuole delle Annales riguardo all’analisi dei vincoli fisico-geografici e la riadatta in chiave ecologico-evoluzionista, evitando la trappola dell’essenzialismo e puntando sulla contingenza storica [12]. Anche qui, l’accusa postmodernista si è scagliata contro il determinismo ambientale (che negli ambiti storiografici dominati dall’idea della tabula rasa risuona nella stessa nota negativa che connota il determinismo genetico, come ha correttamente sintetizzato Massimo Pigliucci [13]), fino a raggiungere la veemenza spropositata di una recensione all’ultimo libro di Diamond intitolata con uno sconcertante turpiloquio [14], e ove le tesi di Diamond vengono retoricamente rilette (e distorte) alla luce della giustificazione scientifica della disuguaglianza mondiale imposta dal dominio borghese. Senza la minima pretesa di fornire contro-argomentazioni scientificamente valide (tra parentesi, la domanda non è come diamine sia possibile che un editoriale accademico venga intitolato con un insulto ad personam, quanto cosa può succedere quando si adottano i criteri delle pubblicazioni scientifiche per adornarsi del prestigio intellettuale senza però avere alcuna padronanza del processo di revisione).

Ovviamente il quadro descritto è una collazione generalizzante e discontinua di esempi non edificanti (e di certo anche il modello di analisi di Diamond non è del tutto esente da critiche, benché su di un livello scientificamente fondato [15]). Come dicevamo altrove, l’autocritica scaturita dal post-strutturalismo è stata un toccasana contro molti vieti preconcetti diffusi nel mondo umanistico per auctoritas imposta, per accondiscendente fiducia o per inerte pigrizia. Il decostruzionismo ha anche fornito gli strumenti intellettuali per smascherare le strategie di potere che si instaurano tra dominanti e dominati, per mettere a nudo certi schemi sociali relativi alla gestione dei rapporti di forza intellettuale e per disarmare le rivendicazioni metafisiche di determinate correnti ideologiche che possono infiltrarsi anche nella ricerca accademica. Il decostruzionismo, specialmente nell’analisi letteraria, si è poi rivelato utile per effettuare un’operazione di reverse engineering sui documenti del passato che possediamo: non sempre la realtà descritta nei documenti può essere presa per buona così come ci è stata tramandata, ma può essere stata manipolata intenzionalmente o inconsciamente. Quindi anche nel relativismo storiografico c’è certamente qualcosa da salvare.

Ma allora, qual è il rapporto corretto tra storia, ciò che è accaduto nel passato, e storiografia, ossia la descrizione di quanto è accaduto, e in quale modo è possibile superare la dicotomia tra pretesa di oggettività assoluta e relativismo degli agenti storici?
Questa volta la risposta è più facile e immediata, perché ci viene in soccorso uno schema sintetico prodotto da Shermer e Grobman, che riportiamo di seguito:
  1. «La storia esiste sia all’interno della mente degli storici che al di fuori di essa;
  2. «Gli storici scoprono e descrivono il passato, esattamente allo stesso modo in cui gli scienziati della natura scoprono e descrivono i fenomeni naturali;
  3. «Gli storici (e gli scienziati della natura) possono scoprire e descrivere una determinata frazione del passato tramite i dati che hanno a disposizione;
  4. «Poiché gli storici, come gli altri esseri umani, non possono liberarsi dai pregiudizi, il problema diventa la qualità e la quantità del pregiudizio. Con che metodi e con quali testimonianze gli scienziati – storici o sperimentali – giungono a particolari conclusioni? E in quale contesto culturale? Con i fondi di chi?
  5. «Dato il presupposto scientifico di fondo secondo cui tutti gli effetti nell’universo hanno una causa anche gli eventi incerti del passato devono avere una struttura causale;
  6. «Riconosciuta la natura oggettiva della scoperta e la natura soggettiva della descrizione, gli storici possono scoprire e descrivere questa struttura causale;
  7. «Il mestiere degli storici consiste nel presentare il passato come un’interpretazione provvisoria di “cosa effettivamente è avvenuto”, in base alle prove attualmente a disposizione, in maniera molto simile a ciò che fanno gli scienziati della natura con le prove del mondo naturale» [16].
A garanzia dell’eptalogo che dovrebbe adornare l’ingresso di ogni dipartimento universitario di storia che si rispetti (nelle cui aule troppo spesso risuonano interpretazioni apodittiche e just-so stories tautologiche) sta la valutazione scientifica della convergenza delle prove (o, se preferite la terminologia utilizzata dal filosofo della scienza William Whevell, “concordanza di induzioni”), che non è altro che la medesima tecnica impiegata da tutti gli altri scienziati che si occupano del passato per dimostrare che un dato avvenimento ha avuto luogo, quando è accaduto e in quale modo si è svolto [17].
Ferma tutto un momento! Allora esistono altri scienziati che si occupano del passato? Forse possono aiutarci con l’annosa questione delle previsioni basate su calcoli scientifici! Forse sì, e ce ne occuperemo nel prossimo post.

[1] Wallerstein 2009: 169-170.
[2] Arnold 2000: 99.
[3] Shermer e Grobman 2002: 60.
[4] Martin 2012: 156.
[5] Coyne 2014.
[6] Martin 2012: 166; Martin e Wiebe 2012.
[7] Cantarella 2010: 21.
[8] Shermer e Grobman 2002: 64.
[9] Cfr. Shermer, Grobman 2002: 309; Sokal 2010: 108-109.
[10] Sokal 2010: xv, nota n. 13; cit. da Albert 1996: 69.
[11] Dawkins 2002: 175.
[12] Pievani 2014: 215-234.
[13] Pigliucci 2010: 50.
[14] Correia 2013. Il libro è Diamond 2014.
[15] Pievani 2014: 219.
[16] Shermer e Grobman 2002: 68-69.
[17] Ibi: 70.

Albert, Michael. (1996). Science, Postmodernism and the Left. Z magazine (9) 7-8: 64-69

Arnold, John. (2000). History: A Very Short Introduction. Oxford: Oxford University Press

Cantarella, Eva. (2010). Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia. Milano: Feltrinelli (1a ed. 1996)

Correia, D. (2013). F**k Jared Diamond Capitalism Nature Socialism, 24 (4), 1-6 DOI: 10.1080/10455752.2013.846490

Coyne, Jerry. (2014). Science is Being Bashed by Academics Who Should Know Better. New Republic, April 3. http://www.newrepublic.com/article/117244/jeffrey-kripals-anti-materialist-argument-promotes-esp

Dawkins, Richard. (2002). L’arcobaleno della vita. La scienza di fronte alla bellezza dell’universo. Milano: Mondadori (1a ed. 2001; ed. orig. 1998. Unweaving the Rainbow: Science, Delusion and the Appetite for Wonder. Boston: Houghton Mifflin)

Diamond, Jared. (2013). Il mondo fino a ieri. Cosa possiamo imparare dalle società tradizionali? Torino: Einaudi (ed. orig.  2012. The World until Yesterday: What Can We Learn from Traditional Societies? New York: Viking Press)

Martin, Luther H. (2014). The Future of the Past: The History of Religions and Cognitive Historiography. Deep History, Secular Theory Deep History, Secular Theory: Historical and Scientific Studies of Religion. Boston- Berlin: De Gruyter, 343-357 DOI: 10.1515/9781614515005.343 (1a ed. (2012). Religio. Revue pro religionistiku. (XX) 2: 155-172)

Martin, L.H., & Wiebe, D. (2012). Religious Studies as a Scientific Discipline: The Persistence of a Delusion. Journal of the American Academy of Religion, 80 (3), 587-597 DOI: 10.1093/jaarel/lfs030

Pievani, Telmo. (2014). Evoluti e abbandonati. Sesso, politica, morale: Darwin spiega proprio tutto? Torino: Einaudi

Pigliucci, Massimo. (2010). Nonsense on Stilts: How to Tell Science from Bunk. Chicago-London: The University of Chicago Press

Shermer, Michael e Alex Grobman. (2002). Negare la storia. L’olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché. Roma: Editori Riuniti (ed. orig. 2000. Denying History: Who Says the Holocaust Never Happened and Why Do They Say So? Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press).

Sokal, Alan. (2010). Beyond the Hoax: Science, Philosophy and Culture. Oxford-New York: Oxford University Press (1a ed. 2008).

Wallerstein, Immanuel. (2009). Braudel on the Longue Durée: Problems of Conceptual Translation. Review (Fernand Braudel Center) (32) 2: 155-170

giovedì 29 maggio 2014

1958, o quando la storia cercò di diventare una scienza

Placca parigina commemorativa dedicata a Fernand Braudel, che non è in Rue Fernand-Braudel ma al n° 59 di rue Brillat-Savarin, Paris 13 (l'arrondissement è però lo stesso, nell'improbabile caso ve lo steste domandando).
Fotografia dell'utente Mu da Wikipedia.
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Cosa c’entrano il Brasile e la Francia con il 1958 e con l’idea di studiare quantitativamente i dati storici? No, la risposta non è il 5 a 2 subito dalla nazionale francese ad opera del Brasile di Didi, Garrincha e Pelé, durante la semifinale del campionato mondiale di calcio svedese di quello stesso anno e disputatasi presso il Råsundastadion di Solna alle h. 19:00 del 24 giugno (per la cronaca, e per la gioia dei 27.100 spettatori presenti, con tanto di tripletta di Pelé al 52’, al  64’ e al 75’).
Per rispondere dobbiamo partire da una citazione.

Come ha ricordato poco tempo fa Massimo Pigliucci, «La storia, dicono alcuni, è una dannata cosa dopo l’altra. Ma è davvero così? Di tanto in tanto vengono proposti tentativi per rendere la storia più scientifica attraverso l’introduzione di teorie generali che spieghino il suo sviluppo» [1]. Il bilancio del rapporto tra storia e scienza è però quasi tutto in negativo. I modelli “scientifici” risalenti al primo Novecento e applicati alla storia sono stati giustamente demoliti da Karl Popper: dati alla mano, tutte le teleologie ideologiche di stampo politico (per tacere dei fideismi teologici) e la psicoanalisi nelle sue varie reincarnazioni hanno sonoramente fallito come metodologie di analisi storiografica. Insomma, fermo restando la validità di alcuni assunti economici nello studio dei rapporti sociali, se prendiamo come discrimine il confine tra scienza e pseudoscienza questi metodi si sono collocati fermamente sul secondo versante. Alcuni modelli di analisi storiografica più recenti promettono comunque risultati ben più consistenti dal punto di vista scientifico, tra cui citiamo quelli portati avanti da Jared Diamond, Peter Turchin [2] e Daniel Lord Smail [3].

Alla fine degli anni Venti del secolo scorso, ben prima delle armi, dell’acciaio e delle malattie di Diamond, e ben prima della cliodinamica di Turchin e della neurostoria/storia profonda di Smail, però, c’era una rivista che si chiamava Annales d’histoire économique et sociale. E les Annales erano il regno della storia totale.
E la storia totale era l’ingegnoso tentativo di scavalcare la tradizionale scansione evenemenziale e nazionalista dei fatti storici come una sequenza interminabile e inossidabile di personaggi politici in bilico tra l’arte della diplomazia e l’esercizio della guerra. Per fare ciò, gli studiosi afferenti alla scuola delle Annales (in pratica il non plus ultra dei manuali di storia: Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel) chiamarono in soccorso geografia, sociologia, psicologia e, soprattutto, i dati quantitativi e la costruzione di modelli. Il tutto incentrato sullo studio della lunga durata, ossia sugli eventi a lungo e lunghissimo termine piuttosto che su sui singoli eventi, un “tempo antropologico”, secondo la definizione di André Burguière, «composto da sovrapposizioni, nuovi inizi e talvolta innovazioni improvvise» [4]. (2009: 61). Questa idea della storia come lunga durata è difatti una “storia della/delle mentalità”, come era in voga dire verso la metà del Novecento, e che oggi in parte potremmo tradurre con evoluzione culturale ed epidemiologia delle rappresentazioni. Chi più di tutti ha perfezionato teoricamente questo approccio è stato Braudel, il quale – come ha ricordato Immanuel Wallerstein – non aveva timore di impiegare il termine “scienza” per definire la sua idea di storia basata sull’analisi quantitativa dei dati allo scopo di individuare pattern e di costruire modelli euristici esplicativi [5].

La controparte di questa imponente e ambiziosa revisione dell’approccio storiografico d’antan è stata, nell’impostazione braudeliana, l’erezione di uno steccato deterministico, le note prisons de la longue durée, ossia i «quadri mentali» che bloccherebbero il tempo storico-culturale in una «semi-immobilità» intorno alla quale graviterebbero tutti gli altri livelli di analisi [6].
All’epoca, correva il 1958, l’espressione era stata utilizzata da Braudel per indicare una struttura, ossia
«una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo. Talune strutture, vivendo a lungo, diventano elementi stabili per un’infinità di generazioni: esse ingombrano la storia, ne impacciano, e quindi ne determinano il corso. Altre si sgretolano più facilmente, ma tutte sono al tempo stesso dei sostegni e degli ostacoli. Come ostacoli, esse si caratterizzano come dei limiti, in senso matematico, dei quali l’uomo e le sue esperienze non possono in alcun modo liberarsi. Si pensi alla difficoltà di spezzare certi quadri geografici, certe realtà biologiche, certi limiti della produttività, ovvero questa o quella costrizione spirituale: anche i quadri mentali sono delle prigioni di lunga durata» [7].
A queste prigioni mentali si assocerebbero i limiti imposti dalle condizioni fisico-geografiche (evidente nel suo magnum opus intitolato Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II) [8]. Ad esempio, lo storico francese afferma che il «condizionamento geografico» è un carcere fatto di «climi, di vegetazioni, di popolazioni animali, di culture, in un equilibrio costruito lentamente dal quale [l’uomo] non si può allontanare senza rischiare di rimettere tutto in discussione» [9]. Lo studio dei vincoli naturali con cui ciascuna società umana ha dovuto e deve confrontarsi è la strada percorsa anche nelle analisi di Jared Diamond (il quale non a caso cita Braudel nella bibliografia al termine di Armi, acciaio e malattie), e che in sostanza si ricollega alla vituperata questione della tabula rasa e dell’assoluta libertà umana in voga nel mondo umanistico e nelle scienze sociali. Pigliucci riassume molto efficacemente la questione:
«Gli esseri umani hanno certamente la capacità di decidere e alterare il corso delle proprie azioni, ma né le decisioni né le azioni possono essere indipendenti dalla costituzione genetica dell’umanità o dalle condizioni ambientali nelle quali gli esseri umani vengono a trovarsi. Per dirla altrimenti, gli esseri umani non sono esenti dalle leggi standard della causalità» [10].
Il problema grosso modo non è questo, bensì l’idea braudeliana dei vincoli mentali come prigioni, vale a dire i «vecchi modi di pensare e di agire», e «gli schemi resistenti, duri a morire, talvolta contro ogni logica» [11]. Allora, se l’accento cade sulla stasi culturale, quando, come e perché cambiano le idee, a parità di tutti gli altri vincoli? Dove trovare e come giustificare quelle «innovazioni improvvise» ricordate più sopra? Di fronte a una prospettiva storica di lunghissima durata non si può certo affermare che la stasi sia l’elemento caratterizzante. Siamo quindi ancora nei limiti degli altri modelli denunciati da Popper? Risposta difficile: sì, perché se intese in un senso assoluto queste idee di staticità assoluta e ingabbiante sono imprecise, e no, perché lo storico aveva comunque intuito una possibile strada da percorrere.

Arrivato a comprendere che «Ogni “attualità” racchiude dei movimenti di origine e ritmo diversi: il tempo di oggi risale nel contempo a ieri, ad un passato più lontano e ad uno remotissimo» [12], Braudel non poteva però trovare accordo con l’analisi del «tempo breve» condotta dalle sociologia, psicologia e economia del suo tempo [13] innanzitutto perché quelle discipline non erano scientificamente attrezzate all’epoca per poter sostenere il confronto desiderato, ma anche a causa dell’atteggiamento strutturalista condiviso dallo storico che in sostanza svalutava il singolo o l’evento per concentrarsi su lunghissime catene evenemenziali [14] (talvolta sposando le tesi psicologico-psicoanalitiche legate a una non meglio definita «psiche collettiva, presa di coscienza, mentalità o attrezzatura mentale») [15]. L’unica possibilità futura per l’analisi del «tempo breve» e delle sue interazioni con le «prigioni della lunga durata» era promessa della «scienza della comunicazione, una formulazione matematica di strutture quasi atemporali. Quest’ultimo procedimento, il più nuovo di tutti, è evidentemente l’unico che possa veramente interessarci» [16]. Ma che cosa intendeva Braudel con questo nuovo «procedimento» matematico caratterizzato da «strutture quasi atemporali»?

Per capire ci dobbiamo spostare nel Brasile. Non per i mondiali di calcio del 2014, ma negli anni ’30 del secolo scorso, e più specificamente in quel dell’Università di San Paolo, dove Braudel aveva conosciuto Claude Lévi-Strauss [17].
Laggiù Lévi-Strauss aveva iniziato a studiare le mitologie locali, i cui componenti avrebbe poi scomposto e ricondotto alla ricerca del soggiacente sistema elementare e atemporale, considerato dall’antropologo strutturalista come la manifestazione della cognizione umana funzionante con il minor numero di vincoli esterni e culturali e perciò, nella sua ottica, la più adatta a rivelare le strutture neurofisiologiche soggiacenti [18]. In pratica, a partire dagli output culturali, Lévi-Strauss intendeva comprendere la struttura neurocognitiva di base e universale (ossia, secondo l’ipotesi strutturalista, l’organizzazione dei codici binari elementari che starebbero a monte dello storytelling mitografico mondiale, del tipo arcinoto crudo/cotto, freddo/caldo, ecc.), e ciò era esattamente il contrario di quanto avrebbero fatto le neuroscienze a partire dalla metà del Novecento. Non a caso il modello proto-cognitivo binario lévi-straussiano è stato falsificato ma, come ha scritto di recente Pascal Boyer, i precursori delle scienze cognitive «possono essere curiosamente scorretti nelle loro conclusioni e del tutto ammirevoli nelle loro ipotesi. Lévi-Strauss è stato certamente entrambi» [19].
Ecco, oltre all’elaborazione statistica e quantitativa dei dati d’archivio, quando Braudel scrive dei quadri “matematici” egli si riferisce anche a simili modelli strutturalisti. Quindi, per riprendere la doppia risposta di poc’anzi: la teoria cognitiva a monte del modello strutturale braudeliano rischia di fallire come gli altri tentativi volti a spiegare la storia in modo scientifico, ma nel contempo ha fallito in modo interessante, per così dire, ossia indicando una intrigante possibilità. Lo stesso si può dire di Lévi-Strauss. Come ha scritto Darwin nel 1871 al termine dell’Origine dell’uomo, «Notizie false sono nocive ai progressi della scienza, poiché spesso si sono credute per lungo tempo; ma ipotesi erronee, se surrogate da qualche prova, fanno poco danno, in quanto chiunque si può prendere il piacere di dimostrare la loro falsità; e ciò fatto, si chiude un sentiero che porta all’errore, mentre contemporaneamente si apre spesso la via alla verità» [20].

Ora, appurato che il quadro braudeliano relativo alla cognizione umana è giocoforza desueto, si può dire che questa idea di studiare la stasi culturale sulla base della cronologia storiografica e delle costanti psicologiche delle menti umane con tutti  loro vincoli, abbia passato oggi il testimone (mutatis mutantis) alle scienze cognitive [21]. Queste discipline si fanno le moderne portatrici e innovatrici di quella longue durée che fu tipica dell’impostazione storiografica novecentesca delle Annales, le cui note “prigioni” potremmo tradurre oggi concettualmente, sulla scorta di un’intuizione di Anders Lisdorf, con “vincoli (co)evolutivi della cognizione umana” [22] e leggere come il livello mesostorico teorizzato da Jesper Sørensen di cui si parlava in quest’altro post.

Resta però da valutare attentamente un importate corollario del lascito braudeliano, ossia il fatto stesso che la storia possa essere considerata ipso facto una scienza. Ma di quale tipo sarebbe? Quale possibilità di fare previsioni scientifiche avrebbe un orientamento storiografico secondo la prospettiva braudeliana? La storia può fare previsioni sulla base di regole fisse? O, per dirla altrimenti, davvero tutte le scienze possono fare previsioni? E in quale modo? Di tutto questo, e di altro ancora, ci occuperemo nei prossimi post.

Insomma, quando inizieranno le partite di calcio del mondiale brasiliano, in televisione a orari impossibili (causa fuso orario), potrete fare gli snob, seguire questo blog e leggervi un bel post di questa serie, per di più con la coscienza calcistica a posto, sapendo che anche Lévi-Strauss ha commentato di pallone [23].

[1] Pigliucci 2010: 46
[2] Ibi: 54.
[3] Smail 2008.
[4] Burguièr 2009: 61.
[5] Wallerstein 2009: 169-170.
[6] Braudel 1973: 68.
[7] Ibi: 64.
[8] Wiebe 2011: 167-168.
[9] Braudel 1973: 64.
[10] Pigliucci 2010: 50.
[11] Braudel 1973: 67.
[12] Ibi: 69.
[13] Ibi: 71.
[14] Cfr. Wiebe 2011: 168.
[15] Braudel 1966: 35.
[16] Braudel 1973: 70.
[17] Wallerstein 2009: 159.
[18] Martin 2008: 313.
[19] Boyer 2013: 175.
[20] Darwin 2013: 1312.
[21] Cfr. Lisdorf 2011: 89.
[22] Ibidem.
[23] Lévi-Strauss 2010: 43.

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