mercoledì 12 marzo 2014

Siamo tutti piccioni di Skinner, ovvero di becchime, gabbiette (mentali) e magia

Sua Maestà, il piccione (Columba livia). Dopo aver letto questo post «scommetto che non guarderete più gli uccelli con gli stessi occhi» (cit. - vid.). Fotografia dell'utente Alpsdake, da Wikipedia.
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Immaginiamo la seguente scena, sopperendo alle lacune documentarie con una buona dose cinematografica di licenze interpretative.
Interno giorno. Laboratorio. Anni Quaranta del secolo scorso.
Piano americano, uno studioso che guarda una gabbietta. Lo studioso è Burrhus Frederic Skinner (1904-1990). Nella gabbietta, un piccione. Lo studioso (o un meccanismo a tempo) ha la possibilità di rilasciare delle granaglie nella gabbietta, a intervalli specifici ma slegati dal contesto o dalle azioni del piccione. Passato un certo periodo di tempo, e una determinata quantità di mangime beccato, lo studioso nota che il piccione ha assunto comportamenti bizzarri, quali «saltellare da una parte all’altra o volteggiare in senso antiorario» (Skinner 1947; Shermer 2012: 74). Perché d’un tratto il piccione sembra sotto effetto di sostanze stupefacenti? Perché lo studioso non ha controllato il mangime prima della somministrazione? Cosa diamine è capitato?
Niente paura: nessuna somministrazione di droghe aviane al malcapitato pennuto. Nessun riferimento agli esperimenti sci-fi di Walter Bishop, il coprotagonista del telefilm Fringe interpretato magistralmente da John Noble dal 2008 al 2013. Nulla di tutto ciò. Il piccione ha solamente messo in relazione l’ultima azione compiuta prima dell’introduzione del cibo con la fuoriuscita delle granaglie, associandole in una relazione di causa-effetto. O, per dirla altrimenti, il piccione ha assunto comportamenti stereotipati diventando superstizioso, ossia stabilendo un rapporto scorretto di causa ed effetto (Vallortigara 2008: 63. Cfr. Foster & Kokko 2009).
Ciò ha avuto luogo grazie a un condizionamento operante attraverso le contingenze di rinforzo, secondo cui «le conseguenze di un comportamento che vengono rinforzate sono le cause determinanti del comportamento che segue» (Buss 2012: 16); il condizionamento probabilmente non avrebbe avuto luogo se il piccione fosse stato punito o se si fosse drasticamente intervenuti su modi e tempi relativi alla somministrazione del cibo. Semplicemente, il rilevatore mentale di causalità del piccione ha agito mettendo in relazione un’azione specifica, ossia quella che il piccione stava compiendo prima che gli venisse somministrato il cibo, con la fuoriuscita del cibo. Data la sequenza degli intervalli, accade nuovamente e abbastanza presto che le due azioni si trovino ad essere ravvicinate: viene così creata una patternicity stabile, ossia una serie di pattern ritenuti in rapporto causale diretto, e ciò avrà l’effetto di rinforzare man mano il comportamento (Vallortigara 2008: 66.). Ragion per cui, secondo quanto stabilito implicitamente dal piccione, ripetendo quel gesto dovrebbe ripetersi la somministrazione del cibo.
Non vi ricorda nulla questo comportamento? Non richiama qualcosa di straordinariamente umano? 
Come ha notato in modo brillante Michael Shermer,
«se dubitate della potenza [della patternicity] nel comportamento umano, fate una visita a Las Vegas e osservate le persone che giocano alle slot machine e i loro svariati tentativi di trovare un pattern tra (a) l’azione di tirare la leva della slot machine e (b) il premio. I piccioni possono avere un cervello da gallina [in inglese la locuzione è più generale: bird brain. N.d.A.], ma quando si tratta delle patternicity basilari i nostri cervelli non sono molto diversi» (Shermer 2012: 75).
In effetti l’esperimento delle slot machine (modificate) è stato condotto da Koichi Ono sugli esseri umani nelle seguenti condizioni: un contatore dispensava punti da accumulare, in media ogni trenta o sessanta secondi, in modo del tutto slegato dai modi e dai tempi dell’azione sulla leva. In modo sorprendentemente simile al piccione di Skinner, i partecipanti all’esperimento che pure avevano compreso la non consequenzialità causale tra la ricompensa e l’azione sulla leva assunsero altri e ancor più bizzarri comportamenti (ibidem).
Esattamente come il piccione di Skinner, taluni atleti mettono in relazione una vittoria nella loro disciplina con un comportamento contingente avvenuto in contemporanea o poco prima prima dell’evento, e ripetono quel gesto all’entrata in campo; così gli studenti assumono determinati comportamenti, o indossano certi indumenti, poiché questi erano stati casualmente assunti o indossati in concomitanza con il loro exploit di successo. Da qui la coazione a ripetere quel gesto, a indossare quel capo di vestiario, nella convinzione che vi sia un implicito nesso causale ed efficace tra i due eventi, e da cui è dipeso il successo finale. Grazie a un ulteriore bias di conferma si tenderà a scartare i casi successivi che ledono la validità dell’assunto generalizzatore (ossia gli insuccessi), e ci si concentrerà solo sugli eventuali successi, un po’ come fa lo scaramantico tifoso Patrizio Solitano Sr. con la sua squadra di football americano (un personaggio interpretato da Robert De Niro ne Il lato positivoSilver Linings Playbook, U.S.A. 2012)
Eppure tutto ciò ha un risvolto evolutivamente adattativo, a patto che il costo della credenza in un pattern falso sia minore del costo del non credere in un pattern reale (Shermer 2012: 72; Foster & Kokko 2009). Stante questa premessa, la selezione operante nel tempo profondo avrebbe favorito le associazioni del primo tipo, fintantoché queste hanno anche sostenuto strategie di successo per la sopravvivenza e la riproduzione.
Lo stesso avviene nella magia che, come ha efficacemente analizzato István Czachesz basandosi su precedenti indagini cognitiviste di Jesper Sørensen e Illkka Pyysiäinen (Sørensen 2002, 2007; Pyysiäinen 2004, 2009), non è altro che «lo sviluppo spontaneo di un comportamento ritualizzato come risposta a un rinforzo positivo e indipendente dal responso» (Czachesz 2011: 149), secondo il condizionamento operativo. Questo pattern viene poi rafforzato dal bias di conferma, sostenuto dalle prospettive probabilistiche che quell’evento voluto capiti indipendentemente dalle azioni compiute (si pensi alle danze per ottenere la pioggia, dove la pioggia gioca lo stesso ruolo del becchime nella gabbietta di Skinner), e diffuso grazie al fatto che spesso le operazioni magiche hanno a che fare con racconti che sollecitano i nostri meccanismi cognitivi di empatia e di disgusto, rendendoli più memorizzabili e trasmissibili. La magia quindi è un caso di perfetto ragionamento circolare: è irrefutabile in quanto «funziona solo quando tutte le condizioni vengono soddisfatte, e sappiamo che tutte le condizioni sono state soddisfatte solo se la magia funziona» (ibi: 159).
Tra l’altro, la magia è una forma di pseudoscienza e, in quanto tale, non ha alcun interesse a individuare, elaborare o adottare metodi di disamina scientifica: nella pseudoscienza, come ci ricorda un celebre passaggio di Carl Sagan,
«le ipotesi vengono spesso formulate in modo tale da non poter essere confutate da alcun esperimento, cosicché non le si può invalidare neppure in linea di principio. Coloro che la praticano hanno invariabilmente un atteggiamento difensivo e sospettoso e si oppongono a ogni esame critico. Quando un’ipotesi pseudoscientifica non riesce a suscitare l’interesse degli studiosi, si tirano in ballo cospirazioni miranti a sopprimerla» (Sagan 2001: 61).
In quanto pseudoscienza, però, come delinea Gilberto Corbellini, la magia «non è che lo stato di default del modo di funzionare della nostra mente, in assenza di un’istruzione che la guidi a confrontarsi con i fatti». Da una prospettiva cognitivista,
«Il pensiero magico si sviluppa come un modo spontaneo di categorizzare i cambiamenti nell’ambiente sulla base dell’imprinting cognitivo che ci induce ad attribuire, in assenza di esperienze correttive, cause invisibili e animate nello scenario circostante. Il nostro cervello è facilmente ingannabile, funziona sulla base di illusioni e autoinganni» (Corbellini 2013: 48-49).
Si tratta in fin dei conti del surplus di capacità computazionale che è frutto dell’evoluzione, in quanto riserva di continui e possibili adattamenti, e che pur sbagliando profondamente sulla qualità e sulla quantità di pattern individuati nel mondo (dai fatti insignificanti che sarebbero legati a un destino ultramondano, fino alle inesistenti cospirazioni globali più o meno occulte), ha permesso nonostante tutto di cercare «cause non direttamente percepibili attraverso processi di astrazione e manipolazione dell’esperienza» (ibi: 49), grazie all’esercizio del «pensiero astratto stabilendo collegamenti tra diversi domini e sottodomini cognitivi» (ibi: 51) e facendo appello alla metacognizione, ossia «operazioni mentali su processi che sono essi stessi operazioni mentali» (ibi: 57).
La prossima volta che acquisterete un biglietto della lotteria aspettando trepidanti i risultati con il vostro maglione fortunato preferito addosso, o che guarderete la partita di calcio avvolti nella sciarpa da tifosi che avevate comprato l’anno in cui la vostra squadra del cuore vinse il campionato, pensate al piccione di Skinner. E sentitevi pure liberi di saltellare e di volteggiare in senso antiorario.

Buss, D.M. (2012). Psicologia evoluzionistica. Milano-Torino: Pearson Italia (ed. orig. 2012. Evolutionary Psychology: The New Science of the Mind. Boston: Pearson. 4a ed.)

Corbellini, G. (2013). Scienza. Torino: Bollati Boringhieri.

Czachesz, I. (2011). Explaining Magic: Earliest Christianity as a Test Case, in Martin, L. H. & Sørensen, J. (Eds.). Past Minds: Studies in Cognitive Historiography, (pp. 141-166). London-Oakville, Equinox

Foster KR, & Kokko H (2009). The evolution of superstitious and superstition-like behaviour. Proceedings. Biological sciences / The Royal Society, 276 (1654), 31-7 PMID: 18782752

Pyysiäinen, I. (2004). Magic, Miracles, and Religion: A Scientist’s Perspective. Walnut Creek: AltaMira Press

Pyysiäinen, I. (2009). Supernatural Agents: Cognitive Science of Supernatural Agency. Oxford-New York: Oxford University Press

Sagan, C. (2001). Il mondo infestato dai demoni. La scienza e il nuovo oscurantismo. Milano: Baldini e Castoldi,  (1997 1a ed.; ed. orig. 1996. The Demon-Haunted World: Science as a Candle in the Dark. New York: Ballantine Books)

Shermer, M. (2012). The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convictions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths. London: Robinson. (Times Books - Henry Holt, New York 2011)

Sørensen, J. (2002). ‘The Morphology and Function of Magic’ Revisited. In Pyysiäinen, I. & Anttonen, V. (Eds.). Current Approaches in the Cognitive Science of Religion, (pp. 177-202). Continuum, London-New York: Continuum

Sørensen, J. (2007). A Cognitive Theory of Magic. Walnut Creek: AltaMira Press

SKINNER BF (1948). Superstition in the pigeon. Journal of experimental psychology, 38 (2), 168-72 PMID: 18913665

Vallortigara, G. (2008). La causa prima? In Girotto, V., Pievani, T., &  Vallortigara, G. Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, (pp. 63-82). Torino: Codice edizioni

venerdì 7 marzo 2014

Sulla piaga del benaltrismo nelle discipline umanistiche

Immagine dell'utente Thegreenj (2007), da Wikipedia.
BENALTRISMO. sost. m. Patologia cognitiva e accademica che comporta l'acquartierarsi sempre a debita distanza, e in modo antiscientifico e anti-epistemologico, dalla verifica delle proprie asserzioni allo scopo di delegittimare in modo pretestuoso la posizione scientifica dell'interlocutore.
Dato che "c'è sempre dell'altro", che "ci vuole ben altro", che "ma è più complicato di così", che "la questione è un altra", che "il dossier è già stato aperto da...", che "mah, non mi convince", la versione cronica della malattia accademica comporta la progressiva necrotizzazione dei tessuti umanistici e la fine del clade umanistico tout court. Le discipline infette sono condannate.
Il ricorso al postmodernese più spinto, all'escamotage religionistico-paranormale, ai sofismi filoteologici, sono semplici palliativi che, per mero effetto placebo, possono aumentare l'aspettativa di vita dei singoli rami disciplinari ma che, per lo stesso motivo dell'aumento di sopravvivenza nel breve periodo, tendono purtroppo a diffondere epidemiologicamente il morbo.

Unica cura efficace: la scienza, in posologie adeguate allo stato di avanzamento del benaltrismo.
Al prossimo "mah, sarà; però è più complicato, e d'altra parte...ecc. ecc." si risponderà dunque con "Hai l'onere della prova: fornisci dati quantitativi e qualitativi". In caso contrario, si dovranno evitare immantinente ulteriori contatto e dialogo. Nel caso dovessero aumentare gli sproloqui metafisici da postmodernese in salsa te(le)ologica, ricordatevi di indossare la mascherina della scienza: è dimostrato che, se usata correttamente, la mascherina scientifica aumenta le difese immunitarie del 100% .
Oppure, si può provare a rispondere allo stesso modo, usando le medesime strategie adottate dal morbo del benaltrismo: il soggetto malato coinvolto reagirà sbraitando e sarà lui stesso ad andarsene.

Come hanno scritto Rita Astuti e Maurice Bloch di recente (2012), "è inutile che gli scienziati cognitivisti facciano lo sforzo di cooperare" con chi "disprezza la storia evolutiva di Homo sapiens". Semplicemente perché, come scrivono i due autori succitati, "Quegli studiosi [refrattari al metodo e all'epistemologia scientifica] non si stanno occupando degli esseri umani ma delle creature provenienti dal pianeta Zog". Ecco, forse il modo migliore per limitare e contenere il morbo è isolare i pazienti, lasciandoli liberi di giocare con le loro affezionate creaturine del pianeta immaginario Zog (ma non dite loro che sono solo fantasie e giocattolame!).

Astuti, R. & Bloch, M. (2012). Anthropologists as cognitive scientists. In Topics in Cognitive Science, 4 (3). 453-461. ISSN 1756-8757.

domenica 2 marzo 2014

Network, code-switching e schemi cognitivi. Ricette per ovviare all'antiscientismo sociologico

Porzione per un taxon: 2 kg. di evoluzione, 1 kg e mezzo ca. di reti neurali, 500 gr. di cognizione e 500 gr. di storia profonda. Tagliate gli ingredienti a fette sottili e fate marinare il tutto per ca. 200.000 anni nell'evoluzione culturale. Al termine della marinatura cuocere a fuoco lento sulla griglia dell'epidemiologia delle rappresentazioni q.b.
Foto dell'utente liz west, da Wikimedia Commons.
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Da qualche mese stiamo seguendo il fil rouge delle incomprensioni e dei pregiudizi  che le discipline umanistiche nutrono (da sempre) nei confronti della scienza. A dicembre abbiamo commentato l’antidarwinismo antropologico e l’idea della tabula rasa, a febbraio ci siamo occupati delle sempiterne, ed eternamente fallaci, te(le)ologie storiografiche. Per essere equi e solidali, oggi tocca all’anticognitivismo sociologico (con i dovuti correttivi).

Allo stesso modo degli storici, i sociologi del passato recente impegnati negli studi culturali hanno prodotto analisi che, per quanto interessanti, non sono riuscite a implementare uno standard euristico basato su criteri scientifici. Però esattamente come gli storici, citando le parole del sociologo Paul DiMaggio, «i sociologi che scrivono sulle modalità in cui la cultura entra nella vita di tutti i giorni fanno assunzioni sui processi cognitivi. Se assumiamo che un simbolo condiviso evochi un senso di identità comune […], che una certa cornice stimoli le persone a pensare in un modo nuovo un tema sociale […], che le lezioni sulla struttura dello spazio e del tempo imparate a scuola siano generalizzate nelle attività lavorative […], o che i sondaggi possano misurare la coscienza di classe [sociale], stiamo facendo delle potenti supposizioni cognitive» (DiMaggio 1997: 265). Ciò nonostante, fino a tempi piuttosto recenti queste supposizioni sono sempre rimaste metateoriche, ossia non esplicitate, e talvolta poste in termini contraddittori (ibidem). Come nel caso degli antropologi appena ricordato, inoltre, lo stesso concetto di “cultura” appariva ancorato al tema dell’acquisizione tramite socializzazione, volta alla costruzione di una «rete senza cuciture» come espressione paradigmatica di una coerente ed integrata visione complessiva che costituirebbe la «soggiacente variabile latente», rinvenibile tautologicamente in qualunque materiale culturale di una specifica cultura (ibi: 264. Cfr. Bloch & Sperber 2002: 726).
Rispetto alla stragrande maggioranza delle scuole antropologiche di stampo umanistico, però la svolta teorica sociologica ispirata dal poststrutturalismo della seconda metà del Novecento ha permesso sia di riconsiderare come «i testi esercit[i]no potere, autorità, dominio, resistenza, e qualunque tipo di relazione sociale che può o non può essere stata presente nell’autocoscienza dell’autore» (Kraemer 2011: 9), sia di prendere coscienza del modo in cui le trame delle simbologie sociali e della connessa gestione del potere conducono a un uso strategico della cultura in vista di obiettivi specifici. Questo cambiamento di scenario disciplinare ha permesso di innestare un rinnovato e più promettente paradigma sociologico del concetto di cultura (anche senza dover adottare il nonsense del linguaggio postmodernese; cfr. Sperber 2010). Nelle parole di DiMaggio, «una volta che abbiamo riconosciuto che la cultura è inconsistente [rispetto alla monolitica definizione precedente. N.d.A.] – ossia che le norme delle persone possono deviare da ciò che i media [sociali] rappresentano come normale, o che le nostre immagini preconsce e i resoconti discorsivi di un fenomeno possono differire, diventa cruciale identificare le unità di analisi culturale e focalizzare l’attenzione sulle relazioni che intercorrono tra questi elementi» (DiMaggio 1997: 265). Inoltre, continua il sociologo, occorre riconsiderare la variabilità come nuovo asse portante dell’analisi culturale, all’interno di una cultura vista ora come «un insieme di rappresentazioni, un repertorio di tecniche, [e] una cassetta degli attrezzi strategici» (ibi: 267) vincolata dagli schemi cognitivi (ossia, le «rappresentazioni di conoscenza e i meccanismi di computazione dell’informazione»; ibi: 269), e legata all’accesso alle rappresentazioni e al modo in cui gli agenti sociali «attribuiscono accuratezza o plausibilità alle asserzioni di fatti e opinioni» (ibi: 267).
A livello sovra-individuale, lo studio cognitivo si salda con quello sociologico in particolare per quanto riguarda tre temi di rilevanza storiografica:
  • l’identità dei collettivi umani;
  • la memoria collettiva;
  • il cambiamento culturale.
Il primo punto riguarda le rappresentazioni soggette a intensa elaborazione intenzionale e condivise dalla collettività, sottoposte a contestazioni frequenti a causa del fatto che «i gruppi competono per produrre rappresentazioni sociali capaci di evocare schemi cognitivi favorevoli ai loro interessi ideali o materiali» (ibi: 275). La memoria collettiva si può invece intendere come «il risultato dei processi che riguardano, rispettivamente, l’informazione alla quale gli individui hanno accesso, gli schemi cognitivi attraverso i quali le persone comprendono il passato e i simboli o i messaggi esterni che informano questi schemi» (ibidem). L’ultimo punto concerne invece un tema che affronteremo in dettaglio prossimamente, ovvero il cambiamento culturale. L’acquisizione, la diffusione e l’estinzione delle culture dipende da un lato dall’interazione dell’ambiente, sociale o naturale, con le logiche dell’azione, ossia con «i set di rappresentazioni o di vincoli che influenzano l’azione in un particolare dominio» (ibi: 277), e dall’altro dall’influenza reciproca tra le modifiche o i cambiamenti del codice culturale a livello sociale (code-switching) e i modelli cognitivi che spiegano la diffusione e la stasi delle rappresentazioni e dei modelli culturali (ibi: 280). Le modifiche del codice culturale, lente (come nei processi di acculturazione) o rapide (ad esempio, il caso dell’adozione del capitalismo o la risorgenza di determinate religiosità nei territori post-sovietici) vanno intese nell’ottica di quella “cultura frammentata” che trova il suo baricentro nell’interazione dei network in quanto «ambienti cruciali per l’attivazione di schemi cognitivi, logiche [dell’azione] e cornici [sociali]» (ibi: 283).
«Il successo empirico, la prevedibilità, la semplicità e il controllo indipendente dei risultati sono fattori che aumentano le possibilità per la ricerca di giungere a conclusioni affidabili» (Sulloway 1998: 327), e questo è lo scenario che sta emergendo al crocevia dell’incontro tra scienze cognitive, neuroscienze, biologia evoluzionistica, e quei saperi antropologici, sociologici e storiografici che non si sono tirati indietro di fronte alla contemporanea «sfida della complessità» scientifica (Ceruti 2009. Cfr. Martin 1997; Martin 2000).

Bloch, M. & Sperber, D. (2002). Kinship and Evolved Psychological Dispositions: The Mother’s Brother Controversy Reconsidered. In Current Anthropology, 43 (5): 723-748

Ceruti, M. (2009). Il vincolo e la possibilità. Milano: Raffaello Cortina Editore.

DiMaggio, P. (1997). Culture and Cognition Annual Review of Sociology, 23 (1), 263-287 DOI: 10.1146/annurev.soc.23.1.263

Kraemer, R.S. (2011). Unreliable Witnesses: Religion, Gender, and History in the Greco-Roman Mediterranean. Oxford-New York: Oxford University Press.

Martin, L.H. (1997). Biology, Sociobiology and the Study of Religion: Two Lectures. In Religio. Revue pro religionistiku, V (1): 21-35.

Martin, L.H. (2000). Kingship and the Consolidation of Religio-Political Power during the Hellenistic Period. In Religio. Revue pro religionistiku, VIII (2): 151-160.

Sperber, D. (2010). The Guru Effect. In Review of Philosophy and Psychology, 1 (4): 583-592.

Sulloway, F.J. (1998). Fratelli maggiori, fratelli minori. Come la competizione tra fratelli determina la personalità. Milano: Mondadori. (ed. orig. 1996. Born to Rebel: Birth Order, Family Dynamics, and Creative Lives. New York: Pantheon Books).