sabato 25 gennaio 2014

Davvero i Boston hanno cantato "Io non ho soldi"? #canzonitravisate, glossolalia e moduli mentali

Dato che non ho trovato immagini sufficientemente buone di giubbetti della ex-DDR, e considerato che i sofficini sono sotto copyright, ecco dei generici doughnuts/donuts, da Wikipedia. Immagine di WestportWiki. Ah, ho anche escluso la numismatica.
Niente paura. Tutto è spiegato qui sotto.
Vi è sembrato che Ian Gillan, il frontman dei Deep Purple, cantasse nel 1984 «Ah!Ah! Ho tre marchi nel giubbetto!» in Knocking at your backdoor?
Oppure che Michael Jackson abbia gridato un «Passa la ciambella!» in rigoroso falsetto nella sua Working Day and Night? Non temete, è normale.

Un programma radiofonico mattutino condotto su un'emittente privata nazionale da un trio comico romano (non nuovo alla divulgazione scientifica e noto per aver condotto il programma televisivo La gaia scienza) segnala da qualche tempo e in un'apposita rubrica le "canzoni travisate". Questa peculiare categoria in costante espansione grazie agli infaticabili segnalatori nasce per indicare quelle canzoni cantate in lingue straniere (molto spesso in inglese) che sembrano contenere frasi o parole pronunciate nella madrelingua nazionale o dialettale. Spesso con esiti a dir poco bizzarri e paradossali, come quel «Io non ho soldi!» gridato dai Boston in More than a Feeling. Oppure il memorabile «this is sof-fi-ci-no!» rigorosamente scandito in Painkiller dei Judas Priest.
A chi non è mai capitato di intuire una parola o una frase italiana in canzoni ascoltate alla radio? Ma come è possibile che quando le ascoltiamo non possiamo fare a meno di sentire quella frase particolare? E soprattutto, c'è un motivo scientifico dietro questo solo apparentemente futile divertissement e che possa giustificare un intero post su questo blog?

Ebbene, un motivo c'è. E si chiama obbligatorietà delle operazioni: allo stesso modo di ciò che avviene con i riflessi, non si può evitare di elaborare in modo (più o meno) sensato l’informazione ricevuta. Siamo nell'ambito della teoria computazionale-rappresentazionale della mente avanzata da Jerry Fodor, secondo la quale il funzionamento della mente dovrebbe corrispondere ad una serie di moduli indipendenti tendenti all’espletazione più o meno ottimale di determinati problem solving. In questo caso, ad esempio, non si può percepire una frase ascoltata in condizioni normali come un inintelligibile disturbo rumoroso. La frase viene quindi "riconvertita" e le parti più somiglianti intese nella propria lingua natia. La stessa cosa accade con i fenomeni religiosi noti come xenoglossia (o eteroglossia) e glossolalia.

La xenoglossia è l’ipotetica capacità di parlare in lingue altrimenti sconosciute e mai apprese in vita, mentre con il termine di glossolalia si indica la capacità di esprimersi più o meno correttamente in lingue estinte o ritenute di origine divina. Si tratta di caratteristiche che attraversano la storia umana e i documenti religiosi noti, da San Paolo agli sciamani asiatici e che oggi, ad esempio, presso le comunità cristiane pentecostali sono ritenute ispirate divinamente dallo Spirito Santo e vengono spiegate (solitamente facendo appello a “traduzioni” assai più lunghe e più complesse dei suoni glossolalici) attraverso un sistema di interpretazioni ispirato divinamente.
Robert N. McCauley (in un recente libro di scienze cognitive che ci è molto piaciuto) ha ripreso gli studi precedenti di Felicitas Goodman e di William Samarin, che avevano a loro volta esaminato nel dettaglio questi fenomeni, e ha concluso che si tratta dell’espressione di uno specifico vincolo modulare cognitivo: dato che non si può percepire una frase ascoltata in condizioni normali come un inintelligibile disturbo rumoroso, i suoni emessi dal soggetto glossolalico vengono interpretati come frasi di senso più o meno compiuto nella propria lingua (esattamente come «Passa la ciambella!»). Anche nel caso dell’enunciazione di una lingua sconosciuta (convenientemente ritenuta estinta), è stato dimostrato che il soggetto xenoglosso, da parte sua, non esprime metriche e ritmiche linguistiche radicalmente diverse, ma si limita perlopiù a ripetere l’alternanza corretta delle sillabe e la stessa metrica che ci aspetterebbe di trovare nella sua lingua natia (non esistono casi di fonemi espressi durante episodi di glossolalia che non siano compresi in un sottoinsieme della madrelingua del parlante).

L’errore cognitivo e quasi automatico che viene commesso da parte dell'ascoltare è di fatto il seguente (uno sbaglio che può trarre in inganno anche studiosi di linguistica ed esperti conoscitori di varie lingue): se sembra una lingua vuol dire che si vuole comunicare qualcosa, e se si vuole comunicare qualcosa significa che il messaggio possiede un senso e un significato, per quanto bizzarro possa essere. Che si tratti di improbabili problemi finanziari, di nostalgici giubbetti dell'ex DDR, o di poco salutari menù comprendenti sofficini o ciambelle.

Riferimenti bibliografici:

Fodor, Jerry. 1988
La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, il Mulino, Bologna (ed. orig. The Modularity of Mind: An Essay on Faculty Psychology, The MIT Press, Cambridge-MA 1983)

Goodman, Felicitas D. 1972
Speaking in Tongues: A Cross-Cultural Study of Glossolalia, The University of Chicago Press, Chicago-London

McCauley, Robert N. 2011
Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York

Samarin, William. 1972
Tongues of Men and Angels: The Religious Language of Pentecostalism, MacMillan, New York

martedì 14 gennaio 2014

2999 e.v. Obiettivo biodiversità zero

Da Wikipedia; opera di Stefan Wernli, 2006
«Se tutti gli uomini fossero estinti, 
le scimmie farebbero [la parte degli] uomini.
- Gli uomini [quella degli] angeli».


C.R. Darwin
Fiction. Canovaccio distopico.
Nel futuro prossimo, pianeta Terra.

Una lobby economicamente potentissima ha portato all'elezione del primo Presidente dichiaratamente creazionista, alla guida di una delle prime nazioni democratiche per importanza economica e culturale. Lo spalleggiano alcuni presidenti di altre repubbliche minori, agguerriti. Suo obiettivo, la revisione della Costituzione sulla base di una Weltanschauung creazionista. Altri leader religiosi implicitamente appoggiano e portano avanti il progetto.
Il neo-eletto presidente presiede una Commissione parlamentare (para)religiosa che ha deciso già da tempo la distruzione di tutte le prove dell'evoluzione e pianificato a lungo termine l'estinzione degli organismi viventi. L'unico modo per anteporre la divinità dell'uomo di fronte alle prove della paleontologia e della biologia è l'eradicazione di tutte le specie viventi e la distruzione di tutti i fossili; l'interdizione ai siti fossiliferi viene garantita dalla loro riconversione a discariche o a centrali per la produzioni di energia, basate su una tecnologia economica, rischiosa e scadente. La questione energetica e finanziaria viene usata come pretesto per l'occupazione industriale di tutti i maggiori giacimenti fossiliferi del mondo. Lo studio della biologia evoluzionistica e della paleontologia viene vietato.
I divieti si moltiplicano: divieto assoluto di tenere animali domestici, divieto di macellazione privata o commerciale (la gestisce uno speciale Dipartimento per la regolamentazione dell'alimentazione), divieto di studiare o pubblicare argomenti biologici, zoologici, antropologici. La medicina ritorna ai tempi delle medicine pre-antibiotiche per tutti coloro i quali non fanno parte dell'élite politico-culturale. La familiarità con le strutture biologiche potrebbe far risorgere il dubbio di una parentela biologica dell'uomo con gli animali.

Con il passare dei decenni viene raggiunto l'obiettivo biodiversità zero. Agenti patogeni di ogni genere infestano le megalopoli. La Terra è totalmente antropizzata, le calotte polari sciolte (l'acqua in eccesso è stata raccolta in enormi bacini a scopi energetici o idrici oppure fatta evaporare artificialmente, provocando grossi squilibri ambientali), l'Antartide un'unica, affollata megalopoli. L'ingegneria genetica viene usata per ricreare ex novo esseri viventi come mezzi di trasporto biomeccanico; l'inquinamento però non diminuisce, e le malattie e la povertà aumentano.
La conquista dello spazio sarà la ciliegina sulla torta dell'élite politico-culturale: lasciare la Terra significherà alleggerire il peso demografico, abbandonando i molti al loro triste destino sul pianeta ormai condannato, e nel contempo coronare il sogno di non dovere più difendere i dogmi dalle prove dell'evoluzione che continuano a essere raccolte da pochi individui ribelli e con fortune alterne. Soprattutto, la colonizzazione spaziale significherà la riaffermazione definitiva e dogmatica dell'uomo creato da Dio a sua immagine e somiglianza. L'oscurantismo teologico è soffocante ma, paradossalmente, l'unità di fronte all'obiettivo mette comunque d'accordo tutti gli esponenti delle maggiori tradizioni religiose mondiali (molte, va detto, più o meno radicalmente modificate in questo futuro distopico). Gli animali citati negli antichi testi religiosi vengono interpretati esclusivamente per via allegorica perché, semplicemente, non esistono più; ad es., il cane è una figura letteraria come il leviatano, presente solo nella retorica o nei motti di spirito.

Flash forward.
Un paio di decenni più avanti nel tempo.

Qualcuno - il protagonista? - parte alla ricerca (invano!) di un animale intravisto o, come si rivelerà alla fine del racconto, solo immaginato, proprio pochi giorni prima del trionfale inizio della colonizzazione interplanetaria su pianeti in precedenza già terraformati con mezzi robotici (Marte?). La storia del passato a questo punto non viene più insegnata se non in una forma ideologica completamente rivista e adattata; le persone selezionate per diventare e allevare a loro volta i futuri coloni di altri pianeti serbano però nelle loro leggende metropolitane le reminiscenze di un passato mitografico nel quale gli uomini convivevano con altri esseri viventi. Fino a quando i fossili scoperti durante una delle prime esplorazioni geologiche su quel pianeta privo di vita inciteranno alla rivolta sociale contro l'establishment socio-culturale e metteranno a repentaglio lo status quo politico della Terra...

[NOTA: versione modificata di un testo pubblicato originariamente on line il 10 giugno 2011]

lunedì 13 gennaio 2014

Un testo divulgativo è "scienza"? O dove si discute di Voyager, dell'ANPRePS e di peer review


Uno dei maggiori centri europei di divulgazione e ricerca ai massimi livelli. No, non è qui da noi.
Central Hall @ NHM, London 2012 _CC-BY-NC-ND 3.0
Io sono spesso molto critico nei confronti di chi utilizza il termine "scienza" a sproposito nel mondo accademico e umanista. Di fatto, il mio è un giudizio in linea con la generale e francamente brutta situazione italiana (con poche ma significative e lodevoli eccezioni) nell'ambito della ricerca internazionale.

Da poco ho preso coscienza di quanto tale situazione, già abbastanza scoraggiante, sia solo la punta di un iceberg. Certo, già un pugno di anni fa La scienza negata di Enrico Bellone mi aveva chiarito alcuni punti basilari, poi delucidati ulteriormente da L'Italia intelligente di Francesco Cassata, dagli ultimi libri di Corbellini, di Pievani e di altri valenti studiosi di scienza e di storia della scienza, per arrivare oggi al Manifesto per la rinascita di una nazione (Science: The Endless Frontier) di Vannevar Bush (1944). Quest'ultimo è un agile ma interessante testo, pubblicato di recente in traduzione italiana per i tipi di Bollati Boringhieri, che mette a nudo (per contrasto) la pochezza intellettuale dei decisori politici locali e le risalenti contingenze storiche, nonché le causalità intrinseche, degli attori sociali implicati nella storia che più ci riguarda.

Situazione scoraggiante in partenza, si diceva, ma guardare adesso gli aberranti risultati generali, certe percentuali e, soprattutto, certe domande inerenti alla rilevazione dell'Anagrafe nazionale nominativa dei professori e dei ricercatori e delle pubblicazioni scientifiche (ANPRePS) del MIUR, è qualcosa di assolutamente stupefacente.

Premessa. Lo scopo del sistema di indagine era quello di stabilire
"i criteri generali per definire la scientificità di una pubblicazione; i requisiti minimi che qualificano, ai fini della loro collocazione nell’ANPRePS, le principali tipologie di pubblicazioni scientifiche (es. monografie, relazioni a convegno, prefazioni e postfazioni, curatele, recensioni, note a sentenza, commenti a norme, edizioni critiche, manuali, voci di enciclopedia e altre). Si chiederà [a professori ordinari, associati, ricercatori, ecc.] quali siano i criteri in base a cui una rivista possa considerarsi scientifica".
Ora, chiedere agli esaminandi (in potenza conflittualmente interessati) se ritengono certi tipi di pubblicazioni come scientifiche è aberrante già a priori. Questo è discutibile ma forse comprensibile nel dialogo (sordo) tra istituzioni e accademia... eppure non riesco a fare a meno di pensare che chiedere se la pubblicazione di testi divulgativi possa essere considerata scientifica è bizzarro (risposta: "Sì" per un tot. 76% degli intervistati), ma domandare se un testo rivolto alle professioni è considerabile scientifico è chiaramente assurdo e diabolico (risposta: "Sì" per il 69,3% dei partecipanti al questionario). Non era bastato il caso - e il putiferio conseguente - della Rivista di Suinicoltura come testo ufficialmente sancito dall'ANVUR per imparare qualcosa in merito?

Per giocare a carte scoperte si sarebbe anche potuto (più semplicemente) presentare agli esaminandi la fatidica domanda Che cos'è la scienza - e che cosa dobbiamo insegnare con metodo scientifico?, ma temo davvero le eventuali, mostruose (e fortunatamente ipotetiche) risposte in merito (sensu Vannoni Di Bella? Astrologia? Ermeneutica teologica? Psicoanalisi ferencziana? Critica postmodernista al concetto 'tipicamente' androcentrico della relatività einsteiniana? ecc. ecc.).
E i risultati, poi, lasciano di stucco.. nessun 100% nella sez. "Estremamente importante" raggiunto da doppio cieco, da revisione effettuata da revisori anonimi (possibile?). Ne escono fuori delle definizioni di "scienza" talmente labili, fragili e discutibili che palesemente tirano acqua al mulino degli esaminandi conflittualmente interessati e, di nuovo, puniscono quantitativamente (e qualitativamente) chi ha fatto veramente ricerca scientifica.
Come ha detto l'astrofisico Neil deGrasse Tyson
"Democracy can't work if you're voting on issues that have science foundations and you don't know any science related to that."
Ora, i principali mezzi contemporanei per attuare il normale e continuo autocontrollo nella comunità scientifica sono replicabilità dei risultati sperimentali, revisione paritaria da parte di chi condivide i modelli epistemologici e verificabili della ricerca e si attiene a rigorosi controlli scientifico-razionali (peer review), revisione cieca o a doppio cieco (ove l’identità dell’autore della ricerca viene nascosta ai revisori – e viceversa – per evitare di incorrere in pregiudizi potenzialmente nocivi per la revisione), disponibilità pubblica delle ricerche e degli apparati scientifici. Una volta pubblicato lo studio diventerà oggetto di indagine, di scrutinio e di verifica da parte di altri studiosi – e così via (Cfr. McCauley 2011). Se però i controllori condividono idee antiscientiste, ingenuamente o meno non ha importanza, ma applicano i suddetti criteri in modo esclusivamente superficiale per legittimarsi istituzionalmente, allora quis custodiet ipsos custodes?
Certo, nella scienza c'è la competizione e ci sono anche le frodi su cui tanto insistono i media. Ma non è questo il punto. Come ha scritto Robert N. McCauley nella sua monografia pubblicata nel 2011, la scienza si è dimostrata lo strumento migliore per regolare la competizione, surclassando il modello bancario e capitalistico di concorrenza: «gli scienziati hanno imparato molto tempo fa ciò che i capitalisti e i banchieri, in particolare, non sembrano essere stati mai in grado di apprendere, ossia che la competizione deve essere regolata con attenzione per assicurare trasparenza e correttezza all’interno del mercato, sia esso commerciale o scientifico». La scienza si è anche dimostrata il mezzo migliore per controllare l’onestà interna della ricerca: «[…] c’è sempre virtualmente un altro membro della comunità scientifica pronto a verificare e, nel caso, a smascherare i malfattori. […] Nessun’altra istituzione, nemmeno la giurisprudenza, è maggiormente impegnata nel garantire l’integrità del controllo interno. Tutte le evidenze suggeriscono che la scienza faccia un lavoro migliore riguardo al monitoraggio interno di qualunque altra istituzione pubblica della storia umana» (McCauley 2011: 274).

Lo dico da un po' di tempo, l'ho scritto nel mio articolo Tempi profondi. Geomitologia, storia della natura e studio della religione pubblicato qualche mese fa, ma ormai è palese. La filosofia dell'insegnamento e dei contenuti dell'accademia umanistica - quella di lontana origine crociana (ricordate il conflitto con Enriques?) e che ha dominato la cultura e l'ambiente intellettuale dal periodo interbellico a oggi (ma soprattutto nel dopoguerra) - ha fallito. Non che in quella corrente fosse tutto malvagio, anzi. Ma i danni finali causati da quel tipo di insegnamento, quelli di oggi, quelli che hanno fatto sì che la scienza fosse relegata in un cantuccio, quelli per cui se scrivi "Darwin" in antropologia culturale e storia i revisori leggono "razzismo", se scrivi "genetica" a Lettere e Filosofia leggono "iperdeterminismo di destra" (mentre dalla parte della destra tutto viene volutamente frainteso e distorto in modo nauseabondo), sono (probabilmente) insormontabili. Chiaro, sto esagerando, e tali discussioni culturali ci sono state anche altrove (penso alla sociobiologia nel contesto anglosassone degli anni Settanta). Il problema è che là queste discussioni teoriche sono state più o meno superate, a beneficio della ricerca che comunque continuava a produrre risultati. Qui, purtroppo, la rete di discussioni teoriche, e soprattutto di messa in discussione e di delegittimazione della scienza tout court (per cui l'uso stesso dell'aggettivo "scientifico" ha cominciato a comprendere inopinatamente un po' di tutto), ha avviluppato tutto in una rete strettissima - e asfissiante. Esagero, ma i contorni sono quelli. Se dubitate, affrontate la lettura impietosa di uno dei documenti o delle analisi storiografiche pubblicati e citati più sopra.

E aggiungerei che, nonostante gli sforzi per mascherare il quadro già decadente e sfatto agli sguardi altrui, per fingersi novelli Dorian Gray, non si può mentire di fronte alla realtà epistemica dei fatti: l'antirealismo magico e postmodernista delle istituzioni e degli interessi di pochi sta demolendo la ricerca e così facendo danneggia tutta la società. Lo si vede dalle statistiche relative al rapporto tra ricerca scientifica e stato del paese nell'ambito dei parametri della ricerca internazionale e dello stato di salute generale del paese. C'è da stupirsi, nello stato delle offese vergognose e degli scioccanti e rabbiosi insulti antiscientisti rivolti contro una ragazza affetta da malattie genetiche perché schieratasi on line a favore della sperimentazione animale?
Quando nei palinsesti televisivi - in primo luogo per conto dei decisori politici (o per compiacerli) - Voyager e le sue nefande cospirazioni aliene hanno soppiantato la divulgazione scientifica, Piero Angela e Giorgio Celli, Richard Attenborough e Carl Sagan (ma Cosmos è mai passato in chiaro da noi?), allora lì è iniziata la discesa. Inarrestabile.

Magari non ho capito bene io il senso di quel documento del MIUR. Possibile, e mi scuso doverosamente.
Prego sinceramente chiunque fosse interessato alla questione, di contribuire a chiarire le idee in merito, perché sono davvero perplesso e confuso (ma non felice, per citare una nota canzone italiana in voga nella seconda metà degli anni Novanta del secolo appena trascorso).

[NOTA: post originariamente scritto il 10 dicembre 2013]

Fonti:

http://www.cun.it/media/123064/rapporto_consultazione_cun.pdf

www.cun.it

McCauley, R.N. (2011). Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford

sabato 11 gennaio 2014

Una partita a carte: cognizione, evoluzione, feste e qualche pavone. Ma soprattutto feste

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, I bari, 1594. Da Wikipedia
ResearchBlogging.org
Di recente mi è stato chiesto di spiegare in breve come comprendere le feste, e soprattutto la presenza dei tratti comportamentali smaccatamente “esagerati” tipici delle feste, da un punto di vista evolutivo e cognitivo. Questo è il mio tentativo di introdurre una risposta, senza scendere nei dettagli delle sperimentazioni psicologiche o dei dati neurofisiologici, e senza affrontare il tema del rituale nella storia profonda degli ominini e negli animali non-umani – che comunque è lì, dietro l’angolo (Burkert 2003; McCauley 2011). Per chi fosse interessato ad approfondire questi temi, è vivamente consigliata la lettura della monografia di Dimitris Xygalatas intitolata The Burning Saints. Cognition and Culture in the Fire-Walking Rituals of the Anestenaria (2012) e incentrata, come si può evincere dal sottotitolo, sugli Anestenaria greci.
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Assumendo che per festa possiamo intendere qualsiasi rituale potenzialmente religioso ed euforico/disforico di una durata limitata, possiamo immaginare una determinata festa come un gioco di carte tra tre giocatori. Tenete a mente il quadro qui sotto perché tornerà utile a breve.

Luca da Leida, I giocatori di carte, 1525. Da Wikipedia
Il primo giocatore rappresenta la neurofisiologia e la cognizione, frutto della storia profonda del taxon Homo sapiens. Qui si collocano le strategie di manipolazione individuale e sociale come frutto di quella che è stata chiamata machiavellian intelligence hypothesis (Whiten 1999), ossia l’idea che «i processi cognitivi avanzati dei primati costituiscano adattamenti primari alla complessità speciale delle loro vite sociali, piuttosto che come risposte ai problemi posti dall’ambiente non-sociale come trovare cibo […]» (Whiten 1999: 495). Questo giocatore fa anche le veci dei sistemi neurofisiologici per alleviare lo stress imposto dai sistemi sociali e gerarchici dei primati e di Homo in particolare (Sapolsky 2006), e qui trova posto anche il modo in cui l’evoluzione ha modellato la psicologia sociale di Homo, con i suoi bias di apprendimento, di memoria e di diffusione delle informazioni, il conformismo di gruppo e la tendenza ad adottare o imitare modelli culturali ritenuti prestigiosi (Sperber 2010; Kahneman 2012).

Il secondo giocatore è costituito dal livello socioeconomico-produttivo, ossia dai sistemi di procacciamento, raccolta, accumulo e scambio del cibo e dei beni utili all’interno della contingente organizzazione sociale in voga. L’implementazione e l’intensità dell’agricoltura e dell’allevamento, ad esempio, vincolano la forma che può assumere la festa: ad esempio, i rituali dolorosi (o disforici) stanno in misura inversamente proporzionale rispetto all’intensità dell’agricoltura praticata, mentre quando quest’ultima è elevata sono più comuni rituali ad alta frequenza e ripetitività, emotivamente meno impegnativi (Atkinson & Whitehouse 2011). Entrambi i due tipi di rituale (che possono anche essere combinati a seconda della conformazione storico-sociale particolare) sono un escamotage culturalmente selezionato per ridurre e controllare la presenza dei free-rider, ossia di coloro che accettano i benefici del gruppo cui appartengono ma che non intendono pagare i costi sociali e/o che si sottraggono ai doveri comunitari. Queste tipologie di rituale rappresentano dunque una risposta ai problemi di defezione dei membri, facendo leva sui loro processi cognitivi: l’esposizione a quel tipo di stimolo (disforico o euforico) influenza a cascata la risposta agli stimoli successivi, in buona misura regolando problemi di vasta portata quale l’accesso alle risorse del gruppo. Grazie all’effetto duraturo sulla memoria degli individui, questi rituali imprimono quindi vividamente il senso di appartenenza a un gruppo limitato di individui (non a caso molti rituali di iniziazione attestati nelle documentazioni etnografiche sono disforici e avvengono durante l’età dello sviluppo, mentre rituali disforici esistono anche nelle comunità agricole ma si applicano perlopiù a gruppi contenuti e sottoposti a elevate pressioni socio-psicologiche, come gli iniziati nelle religioni misteriche antiche, o che condividono grossi rischi di defezione dei membri, ad es. nelle organizzazioni militari) (Bulbulia et al. 2013: 393). Infine, al di là dell’innovazione tecnologica che ha rappresentato, il sistema agricolo-pastorale è stato uno dei fattori fondamentali che ha contribuito a fissare le disuguaglianze sociali attraverso la concentrazione e il controllo sulla ridistribuzione del surplus produttivo (Sapolsky 2006).

Il terzo giocatore è l’evoluzione culturale che, a differenza di quella biologica, può agire in modalità intenzionali attraverso la selezione delle varianti e la trasmissione dei caratteri acquisiti. Insomma, è un po’ come il giovane baro sulla destra del quadro di Caravaggio intitolato, per l’appunto, I bari. Comunque, come ha sottolineato David Sloan Wilson, «anche le intenzioni diventano una forma di variazione casuale quando interagiscono con altre intenzioni e producono conseguenze impreviste» (in Smail 2008: 91).

Sul piatto, come posta in gioco, c’è l’organizzazione socio-familiare in atto, e con essa la fitness, ossia la capacità di trasmettere i propri geni alla generazione successiva. A questa aggiungiamo la capacità di trasmettere i propri memi, ossia le rappresentazioni culturali, le idee (per un panorama cfr. Laland & Brown 2011). Geni e idee sono egoisti nel senso che non importa quanto possano essere utili ai loro portatori, essi cercheranno di aumentare la propria presenza e di diffondersi epidemiologicamente e competitivamente anche a scapito dei loro portatori, come la proliferazione delle cellule tumorali in un organismo o un rituale festivo potenzialmente maladattativo, come lo scambio competitivo di beni durante il potlatch (una forma parossistica di scambio reciproco di doni che può condurre alla rovina dei membri della comunità). La fitness del gruppo familiare può inoltre essere messa tra parentesi, per così dire, attraverso determinate scelte fortemente maladattative per il singolo - ma efficaci per la sua famiglia: sacerdotesse vergini, membri di ordini religiosi, e qualunque altro tipo di ruolo istituzionale e prestigioso che osservi forme di castità, socialmente irreggimentato, sono ruoli sociali cui corrisponde un investimento duplice poiché limita i membri familiari in età spesso fertile contribuendo ad evitare la dispersione del patrimonio (cui è connessa la capacità di gestire politiche matrimoniali), e contribuisce ad accrescere il prestigio della famiglia cui i membri implicati appartengono. In questo senso, l’obiettivo è il mantenimento dello status quo egemonico della classe sociale (cfr. Smail 2008).

Immaginiamo ora che nella stanza, sugli altri tavoli, si stiano giocando altre partite, come in un torneo, nelle quali il primo giocatore è sempre lo stesso, mentre gli altri giocatori sono varianti di quello che abbiamo osservato al nostro tavolo. Questa stanza è la cultura del taxon Homo nello spazio e nel tempo. Dato che il tempo di gioco è costituito dal tempo profondo dell’evoluzione sul pianeta Terra, alcuni tavoli sono vuoti perché alcuni giocatori nel frattempo si sono estinti. (Essendo il gioco di carte una metafora, occorre chiarire che non c'è alcun “premio” finale al torneo né perfezione alcuna nelle strategie di gioco: il gioco e la sua durata coincidono con la durata temporale del taxon Homo sulla scala geologica del pianeta Terra. Qui l’analogia ludica trova il suo dente di arresto).

Ritorniamo al nostro tavolo. Diciamo che, stante il fatto che il primo giocatore o non ci vede bene o gioca bendato (non ha quindi intenzionalità), la sua strategia “alla cieca” vincola quelle degli altri due giocatori i quali, come nel quadro di  Luca da Leida, possono pianificare strategie più o meno comuni. Pertanto, data la conformazione neurofisiologica e cognitiva di Homo, vengono a crearsi a determinati intervalli di tempo delle situazioni di stasi (chiamate anche livello mesostorico, sensu Sørensen 2011). In questi momenti, le feste sono stabili e le rappresentazioni condivise che le sostengono raggiungono una diffusione sufficiente nella popolazione da poter generare una “comunità immaginata”, quale che sia. La conformazione peculiare e storica assunta dalla festa religiosa (o dal rituale), in questi casi, esprime contemporaneamente i seguenti motivi cardinali:
  • è il frutto di una supervisione mitocratica top-down, per cui alcuni individui che godono di prestigio socio-religioso, sfruttando un meccanismo cognitivo preciso, possono diffondere e imporre in modo più efficace le proprie rappresentazioni a scapito delle interpretazioni individuali (svuotamento delle risorse cognitive nelle interazioni religiose: Schjoedt et al. 2013);
  • grazie alla condivisione di un’elevata stimolazione sensoriale (euforica o disforica) la festa rende maggiormente coesa la comunità (o la parte di comunità) implicata nel rituale (Xygalatas et al. 2013);
  • con l’impegno nello svolgimento i membri segnalano l’un l’altro e in modo fisicamente dispendioso (a seconda del tipo di festa) il proprio livello di affidabilità sociale (Atran 2002);
  • se la comunità è abbastanza vasta, è probabile che un tipo peculiare di divinità onnisciente supervisioni loperato dei singoli. Dato che è stato dimostrato che le divinità moralizzatrici che 'intervengono' punendo i free-rider sono più comuni nelle società più grandi (Johnson 2005), dove difatti è necessario un controllo sociale maggiore nei confronti di individui che potenzialmente non si conoscono tra di loro, è possibile che queste siano state sottoposte a competizione intraspecifica e a selezione culturale in parte top-down e legata a sua volta alla sedentarietà e alla produzione di beni di consumo alimentare in situ (Bulbulia et al. 2013).
Le feste si contraddistinguono soprattutto per il loro carattere euforico (anche se bisogna stare attenti: anche un rituale euforico che prevede il consumo smodato di vino può diventare disforico. La sbornia del giorno dopo docet). Non è raro che esse inglobino delle c.d. “trasgressioni ritualizzate”, che hanno luogo quando «la stabilizzazione di una norma contribuisce alla stabilizzazione di una forma ritualizzata e arginata della norma opposta» (Bloch & Sperber 2004: 733), ovvero quando esistono certi tipi di comportamenti che possiedono attrattive cognitive che le rendono sia diffuse sia ostacolate (da altre rappresentazioni). In questo senso, esse sono delle valvole di sfogo socialmente implementate quando il secondo e il terzo giocatore raggiungono una sorta di equilibrio implicito.
Come il sollievo che le mitologie religiose possono offrire all’idea della morte (talvolta narrate durante o dopo le stesse feste; Atran 2002: 177-181), così anche le trasgressioni ritualizzate offrono appigli cognitivi e valvole di sfogo sociali, per quanto estemporanee e soggette a mutamento. Anzi, si potrebbe persino dire che ogni festa mai esistita, e così i rituali religiosi, se considerati nel quadro del tempo profondo che connota la partita tra i tre giocatori, non siano che strutture strategiche frutto di un’interazione tra risalenti vincoli storici e scelte culturali intenzionali e contingenti.

Queste “trasgressioni ritualizzate”, infine, vanno comprese come un sottoinsieme del seguente fatto: tutti i rituali sono esagerazioni, e le feste ne rappresentano l’aspetto forse solamente più vistoso. Nel caso dell’evoluzione culturale, come abbiamo già visto, il conformismo di gruppo e il bias del prestigio individuale sono elementi che possono facilmente condurre all’inclusione di elementi maladattativi. L’esagerazione (potenzialmente maladattativa) dei tratti comportamentali è tipico delle costose segnalazioni di appartenenza comunitaria che contraddistinguono le credenze religiose, così come si riscontra nelle mode e nella «marcatura simbolica dei confini fra i gruppi» (Richerson & Boyd 2006: 228). Abbiamo qui a che fare grosso modo con lo stesso meccanismo che presiede alla selezione sessuale dei tratti fenotipici potenzialmente maladattativi. Per citare un esempio celeberrimo, la vistosa coda del pavone maschio (un carattere sessuale secondario) è, di fatto, un elemento che nuoce all’individuo poiché lo rallenta, lo intralcia e lo rende più soggetto alla predazione. Ciò nonostante è preferito dalle pavonesse, per cui quella coda abnorme diventa la segnalazione estremamente costosa che, nonostante tutti gli impedimenti e i rischi cui quella coda espone, quel pavone maschio è sopravvissuto fino al corteggiamento della femmina (A. Zahavi & A. Zahavi 1997; Luzzatto 2008: 44-47). La scelta femminile, insomma, ha ricadute sia sulla frequenza dei geni delle code lunghe dei maschi sia su quella della preferenza delle femmine per quelle stesse code: «il processo si autoalimenta in una spirale esplosiva che può far diventare esagerato un tratto in origine correlato con la fitness» (Richerson & Boyd 2006: 228).

[NOTA: aggiornato il 31 gennaio 2014]

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martedì 7 gennaio 2014

Di moduli e domini: la teoria computazionale-rappresentazionale della mente

Wikipedia; opera di HikingArtist
ResearchBlogging.org
Riprendiamo il discorso sulla decostruzione dell'idea della tabula rasa mentale attingendo dal materiale raccolto durante la serie di post dedicati al volume di Robert N. McCauley intitolato Why Religion Is Natural and Science Is Not, e cerchiamo di vederci in modo un po' più chiaro.

Ripartiamo dalla teoria computazionale-rappresentazionale della mente avanzata da Jerry Fodor, secondo la quale quale il funzionamento della mente dovrebbe corrispondere a una serie di moduli indipendenti tendenti all’espletazione più o meno ottimale di determinati problem solving [1]. L’importanza della proposta di Fodor risiede nella sua forma teorico-scientifica: la sua idea di modularità (ossia una descrizione della struttura mentale nella quale determinati moduli sono deputati all’elaborazione di dati in modalità fisse) occupa un ruolo centrale nella rivoluzione cognitiva successiva agli anni Sessanta del Novecento e ha risposto al bisogno e all’esigenza di operare nel campo del funzionamento della mente (appannaggio storico della filosofia) con uno strumento concettuale propriamente scientifico. I moduli fodoriani sono quindi meccanismi computazionali (input systems) che elaborano le informazioni provenienti dai sistemi percettivi (visivo, uditivo, olfattivo, ecc.). Tali sistemi forniscono le informazioni ai processi cognitivi centrali, i quali sono invece preposti al ragionamento e ad altri tipi di analisi più o meno raffinata. Le caratteristiche che secondo Fodor contraddistinguono i moduli mentali in quanto sistemi di elaborazione di input sono le seguenti [2]:
  1. specificità per dominio: i moduli sono meccanismi specifici vincolati all’elaborazione di input provenienti da domini specifici;
  2. obbligatorietà delle operazioni: allo stesso modo di ciò che avviene con i riflessi, non si può evitare di elaborare l’informazione ricevuta (ad esempio, non si può percepire una frase ascoltata in condizioni normali come un inintelligibile disturbo rumoroso, come avviene nella xenoglossia o nella glossolalia e, forse più comunemente, con le parole percepite come appartenenti alla nostra madrelingua e presenti nei testi delle canzoni cantate in lingue straniere);
  3. accesso limitato alle rappresentazioni elaborate: il sistema cognitivo centrale ha un accesso estremamente limitato alle rappresentazioni che i sistemi di input elaborano (ci si dimentica in fretta di determinate caratteristiche e di particolari visti in una manciata di secondi, a meno che non ci si concentri deliberatamente, focalizzando l’attenzione);
  4. velocità di elaborazione: assicurata dall’azione di un limitato e stereotipato sottoinsieme di possibili interpretazioni degli input;
  5. incapsulamento dell’informazione (o informazionale): ciò che sappiamo del mondo che ci circonda non ha effetto sulla persistenza delle illusioni o, meglio, «la nostra incapacità di sfuggire ad alcune di esse» (ad esempio quelle visive) è uno dei punti fondamentali sui quali si basa l’idea fodoriana che i moduli siano impermeabili a livello cognitivo [3];
  6. output superficiale: i moduli che elaborano i dati sono limitati alle distinzioni più basilari (ad esempio, i moduli visivi si limitano alla forme mentre i moduli linguistici elaborano la struttura sintattica ma non il significato; ancora, l’identificazione di tavole e sedie è banale, e nessuno ha problemi a visualizzarle, mentre è molto più problematico immaginare mentalmente un generico “mobile”);
  7. architettura neurale fissa: esiste un’associazione tra localizzazione cerebrale e analisi degli input;
  8. danneggiabilità selettiva: eventuali problemi dei sistemi neurali dovuti a incidenti o malattie mostrano un pattern caratteristico, che sembra confermare la specificità per dominio (ossia, i disturbi della percezione che affliggono determinate modalità di riconoscimento degli input non affliggono altre capacità);
  9. pattern di maturazione: lo sviluppo dei moduli segue un ordine e un ritmo caratteristici, un elemento chiave se si considerano ad esempio le capacità motorie di un neonato, per cui si ha solitamente una sequenza che comprende la capacità di girarsi su un fianco entro poche settimane, stare seduti e gattonare entro un certo numero di mesi e i primi passi entro un anno (lo stesso avviene con il linguaggio). 
Il modello fodoriano originario però, eccessivamente rigido e non esente da problemi, è stato successivamente modificato e aggiornato sulla base dell’accumulo di evidenze provenienti dal campo della psicologia sperimentale (ad esempio, non è detto che un modulo debba manifestare contemporaneamente tutte le caratteristiche elencate da Fodor) [4]. Gli studiosi impegnati in questo tipo di ricerche (in particolare gli psicologi evoluzionisti) hanno perciò proposto che, contrariamente alla tesi fodoriana per cui la modularità è limitata ai soli sistemi periferici come la vista, una gran parte (o la totalità, a seconda dell’interpretazione) dei sistemi di elaborazione di dati della mente potrebbe essere di fatto modulare. Ad oggi sono stati proposti come rappresentanti di questa concezione della modularità cognitiva:
  • il rilevamento di impostori;
  • il ragionamento;
  • il linguaggio;
  • la ToM (la teoria della mente che permette di adottare un atteggiamento intenzionale nei confronti di altri agenti);
  • l’orientamento nello spazio;
  • i sistemi emotivi quali paura, disgusto, gelosia, ecc.;
  • il riconoscimento dei volti;
  • «[la] scelta del partner, [l’]uso di utensili, [il] riconoscimento delle emozioni dall’espressione del viso», ecc. [5].
Un simile concetto di modularità massiva (massive modularity) presuppone pertanto l’esistenza di dozzine o centinaia di circuiti neurali distinti, che nel loro insieme mediano tutte le attività cognitive principali, ognuna delle quali si è evoluta nel corso del tempo profondo del genere Homo per fronteggiare determinate attività [6]. In pratica, come sintetizza McCauley, «la mente, come un coltellino svizzero, contiene un assortimento di strumenti adatti a scopi speciali, che possono lavorare in modo relativamente indipendente l’uno dall’altro e che, se assolutamente necessario, possono essere utilizzati per affrontare problemi per i quali non sono stati progettati» [7]. Nella sintesi offerta da H. Clark Barrett e Robert Kurzban tale punto di vista rifiuta l’annoso dibattito tra sostenitori delle conoscenze innate (geneticamente determinate) ed emergenza durante l’ontogenesi, per abbracciare invece la teoria dei sistemi di sviluppo (ovvero lo studio delle interazioni causali e contingenti tra geni e ambiente nello sviluppo dal gamete all’organismo maturo) e afferma che, a differenza di un fraintendimento assai diffuso nella letteratura critica del passato recente, la modularità non equivale al determinismo genetico [8]. I due studiosi fanno poi appello a una elaborazione puntuale di Dan Sperber e ritengono che non si possa escludere che i sistemi cognitivi centrali siano anch’essi specifici per dominio (mentre nel sistema fodoriano, lo ricordiamo, i sistemi cognitivi centrali non sono modulari) [9].

Ora, come è possibile che i moduli cognitivi possano essere utilizzati per elaborare informazioni differenti rispetto a quelle per cui essi si sono evoluti? La critica più comune rivolta nei confronti delle elaborazioni psicologiche basate sulla proposta fodoriano-modulare del passato recente è stata che i moduli specifici per dominio (ossia, che trattano pacchetti di dati distinti anche all’interno della medesima facoltà; ad esempio la percezione dei volti è differente rispetto a quella del colore, ecc.) [10] non riuscirebbero a spiegare l’apprendimento di funzioni e azioni del tutto nuove: solo input specifici possono essere elaborati in un particolare modulo. In realtà, come notano H.C. Barrett e Kurzban, sulla scorta di Sperber, esiste una differenza tra input propri e reali: «gli stimoli che incontrano i criteri del dispositivo [modulare] possono nondimeno essere elaborati, anche se non erano presenti nell’ambiente ancestrale [di origine]» [11]. In breve, il dominio di elaborazione comprende non solo le disposizioni evolutesi per fornire un adattamento in qualche modo utile all’organismo (dominio proprio), ma anche l’elaborazione di stimoli più o meno simili ma che non rientrano nel dominio originario (dominio reale) [12]. Il risultato dell’elaborazione dei dati che non rientrano all’interno del dominio proprio fa parte dei prodotti cognitivi secondari, siano essi comportamentali o intellettuali, e soggiace all’acquisizione cognitiva dei dati (cognitive capture) così descritta da Pierre Liénard e Boyer: «l’attivazione [modulare] tramite segnali che non fanno parte del repertorio funzionale intrinseco» del dominio proprio [13]. Così, ad esempio, l’atto di guidare un’automobile può fare affidamento sui sistemi per evitare urti con altri oggetti, mentre i sistemi strategici di cognizione sociale possono essere ingaggiati durante le partite a scacchi [14].

[1] Fodor, Jerry. La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, il Mulino, Bologna 1988 (ed. orig. The Modularity of Mind: An Essay on Faculty Psychology, The MIT Press, Cambridge-MA 1983).
[2] L'elenco segue lo schema presentato in McCauley, Robert N., Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, pp. 44-49.
[3] McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 45.
[4] Fodor, Jerry, La mente non funziona così. La portata e limiti della psicologia computazionale, Laterza, Roma-Bari 2001 (ed. orig. The Mind Doesn’t Work That Way: The Scope and Limits of Computational Psychology, The MIT Press, Cambridge 2000). Cfr. McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 50.
[5] Cfr. Barrett, H. Clark e Robert Kurzban, Modularity in Cognition: Framing the Debate, in «Psychological Review», 113, 2006, pp. 628-647: 630. McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 53.
[6] Cardaci, Maurizio, Psicologia evoluzionistica e cognizione umana, il Mulino, Bologna 2012.
[7] McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 52.
[8] Barrett e Kurzban, Modularity in Cognition, cit., p. 639.
[9] McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 51. Cfr. Sperber, Dan, The Modularity of Thought and the Epidemiology of Representations, in Hirschfeld, Lawrence B. e Susan A. Gelman (eds.), Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1994, pp. 39-67.
[10] Cardaci, Psicologia evoluzionistica..., cit., p. 98.
[11] Barrett e Kurzban, Modularity in Cognition, cit., p.  635. Cfr. McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 157 (che a sua volta riprende Sperber, The Modularity of Thought..., cit., pp. 66-67, 50-53).
[12] Cfr. Sperber, Dan e Lawrence Hirschfeld, The Cognitive Foundations of Cultural Stability and Diversity, in «Trends in Cognive Science», 8, 1, January, 2004, pp. 40-46: 40-42.
[13] McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 157 (cfr. Liénard, Pierre e Pascal Boyer, Whence Collective Ritual? A Cultural Selection Model of Ritualized Behavior, in «American Anthropologist», 108, 2006, pp. 814-827).
[14] Barrett e Kurzban, Modularity in Cognition, cit., p. 635.

Artt. indicizzati in Research Blogging:
Barrett HC, & Kurzban R (2006). Modularity in cognition: framing the debate. Psychological review, 113 (3), 628-47 PMID: 16802884 Sperber, D. (1994). The Modularity of Thought and the Epidemiology of Representations. Hirschfeld, Lawrence B. & Susan A. Gelman (eds.), Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 39-67 DOI: 10.1017/CBO9780511752902.003 Sperber D, & Hirschfeld LA (2004). The cognitive foundations of cultural stability and diversity. Trends in cognitive sciences, 8 (1), 40-6 PMID: 14697402 Liénard, P. & P. Boyer (2006). Whence Collective Ritual? A Cultural Selection Model of Ritualized Behavior American Anthropologist, 108, 814-827 DOI: 10.1525/aa.2006.108.4.814