martedì 11 novembre 2014

Why Religion is Natural and Science Is Not (OUP 2011): tutto quello che avreste voluto sapere ma non avete mai osato chiedere

McCauley, R.N. (2011). Why Religion Is Natural and Science Is Not. Oxford-New York: Oxford University Press.
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Tempo fa avevo presentato qui su Tempi profondi un riassunto delle conclusioni di Why Religion Is Natural and Science Is Not (2011), l'ultimo libro di Robert N. McCauley (William Rand Kenan Jr. University Professor e Director, Center for Mind, Brain, and Culture presso la Emory University). Nel corso del tempo ho avuto modo di esplorare sul blog alcuni argomenti del libro sfruttando temi estemporanei, ma sono sempre rimasto insoddisfatto dal risultato. Il libro meritava di più, e così, a distanza di quasi un anno e mezzo dall'inizio di quella serie, ecco senza alcuna pietà per il lettore un mega-riassunto di tutti i contenuti fondamentali del volume, in sole diciassettemila parole (!). Ora non avete più scuse per dire che dopo l'estate non ho postato più nulla sul blog.
Sono ancora insoddisfatto (anche perché, per motivi di tempo, ho riproposto alcune sezioni tali e quali da note sparse in cartaceo sulla mia scrivania e da altri post precedentemente pubblicati), ma almeno la soluzione proposta permette una più rapida ed efficace ricerca degli argomenti rilevanti in un solo post. Per non appesantire ulteriormente la lettura, gran parte dei riferimenti bibliografici e degli approfondimenti è stata eliminata.
Un ultimo appunto: presento questo riassunto per colmare una lacuna nel panorama editoriale italiano (quando un'edizione italiana?), chiedendo al lettore eventualmente interessato a riportare estratti dal mio post di citare questa pagina come fonte secondo la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported (trovate le indicazioni sulla sidebar qui a destra). In ogni caso, dato che si tratta pur sempre di un blog e non di una rivista peer-review, faccio comunque notare che non c’è stata né una revisione professionale delle mie bozze né un controllo delle pagine da cui provengono le citazioni originali. Si consiglia pertanto di prendere comunque visione del testo originale (anche solo dando un'occhiata su Google Books)!

Buona lettura!


lunedì 28 luglio 2014

“Ma allora l’evoluzione oggi è terminata, no?!?”

La secca risposta al titolo di questo post. Qui potete anche finire di leggere. Se però non vi basta la risposta del Grumpy Cat, e volete capire cosa diamine c’entrino gli stafilococchi con lo studio storiografico, allora siete invitati a proseguire la lettura qui sotto.
Immagine dal sito Quickmeme, segnalato sul blog ufficiale del ©Grumpy Cat.

ResearchBlogging.org
Siamo nel 1958. Lo storico francese Fernand Braudel ha appena scritto che esistono “strutture” che vincolano e immobilizzano la storia umana, e dalle quali non ci si può liberare. «L’uomo», scrive Braudel, «è prigioniero per secoli di climi, di vegetazioni, di popolazioni animali, di culture, in un equilibrio costruito lentamente dal quale [l’uomo] non si può allontanare senza rischiare di rimettere tutto in discussione» [1]. Torniamo nel presente. Un conoscente che ha compiuto studi umanistici mi domanda: «Con l’arrivo dell’uomo tutto è stato controllato a livello culturale, giusto? Ma quindi l’evoluzione oggi è finita, no? Mica capita più?!?». Ecco, d’un tratto, mentre penso alla faccia di Richard Dawkins rimasto vittima di una trollata creazionista, mi viene in mente che forse c’è un nesso tra le due affermazioni, per quanto differenti, e che vale la pena di indagare. Scusandomi con il mio conoscente, concedo diritto di precedenza allo storico francese e mi concentro per un momento su quelle «realtà biologiche» che Braudel ritiene così difficili da spezzare [2], per cercare di contestualizzarle*.

*: Certo che abbiate letto il trittico di post precedenti, salto a piè pari tutta la lunga e forse noiosa spiegazione su chi è e cosa ha fatto Braudel.

Il nodo fondamentale dell’affermazione di Braudel è un certo pessimismo riguardo all’assoluta lentezza o immobilità della “lunga durata” biologico-geografica. C’è qui all’opera un fraintendimento peculiare. Ritenere che persino su una scala di centinaia di anni, storiograficamente breve e geologicamente infinitesimale, la biologia e la geografia vincolino irreparabilmente la storia significa immaginare una biologia e una geografia sostanzialmente statiche. Ecco che, adottando la prospettiva del tempo profondo, sentire da uno dei fautori dello studio della longue durée che a livello biologico e geografico in fin dei conti è tutto bloccato o fermo, sembra un po’ un paradosso.
Per inquadrare la risposta occorre pertanto tornare ai paletti fondamentali dell’impalcatura evoluzionista. E dato che si è già fatto in tutti i modi possibili e immaginabili, questa volta riprendo una efficace tabella ideata da Edmund Russell, che elenca i fraintendimenti più comuni riguardo al concetto di evoluzione:

Lo specchietto da sussidiario delle elementari che dovrebbe essere obbligatoriamente affisso, in quarta di copertina, sui manuali universitari di storia. Trad. tempiprofondi.blogspot.it

Per quanto incommensurabilmente diverse, le radici del pessimismo braudeliano e del mio interlocutore forse hanno davvero qualcosa in comune, e questo massimo comun denominatore potrebbe essere la griglia mediana delle “idee popolari” presente nello specchietto riportato qui sopra. Ora, in tale prospettiva il luogo d’elezione della cultura umana è proprio la stasi, all’interno di un mondo biologico-geografico ritenuto grosso modo immobile. Insomma, l’evoluzione non è un argomento degno di attenzione storiografica, perché o ha luogo nei milioni di anni (un intervallo al di là di qualunque modello storiografico umanista), o non agisce più (è terminata), oppure è già arrivata all’ultimo piano e nec plus ultra, quasi fosse un’ascensore (destinazione? Homo sapiens, naturalmente).
Lasciamo perdere per un momento le inevitabili deformazioni progressioniste che spesso e volentieri soggiacciono a simili speculazioni. Piuttosto, Russell ha formulato un efficace contro-argomento quando ha notato che si ha sempre l’impressione che, secondo il cosiddetto “senso comune”, «l’evoluzione sia qualcosa che capiti “là fuori” – ben lontana da noi nel tempo, ben lontana da noi nello spazio, ben lontana da noi come specie, e certamente ben lontana da noi come individui» [3]. Tradotto in soldoni: l’evoluzione è qualcosa che è accaduto esclusivamente nel passato (perché oggi gli animali non cambiano più) e, ad ogni modo, se non sono dinosauri pesanti tonnellate, mastodonti o megateri da museo, l’evoluzione non attacca. Sembrano qui convergere due errori da manuale:

  1. la fiducia innata nella fallace biologia intuitiva, per cui il simile produce il simile;
  2. il pernicioso errore dell’essenzialismo di cui si discuteva tempo fa, e che ha radici profonde nella storiografia novecentesca

Come nel caso dello studente tolemaico, siamo su una rotta completamente sbagliata. Occorre cambiare completamente prospettiva, e questo è ciò che la scienza ci permette di fare. Come ha scritto Russell, «l’evoluzione è ordinaria, non eccezionale. Ha luogo tutto intorno (e dentro) ad ognuno di noi […]. Raramente ce ne accorgiamo, ma l’evoluzione modella continuamente le nostre vite» [4]. D’accordo, ma a questo punto ci si può legittimamente domandare quale rilevanza questa concezione possa avere per lo studio storiografico.

Là dove Braudel e il mio interlocutore vedevano vincoli e prigioni, o più prosaicamente una “roba scientifica” archiviata molto tempo fa con l’arrivo di H. sapiens, evoluzionisti e cognitivisti vedono oggi un intreccio continuo di vincoli e di contingenze, la cui base è sempre e comunque coevoluzionistica. Quando si tirano in ballo biologia, geografia e altri aspetti del mondo naturale, occorre pertanto riconsiderare e calibrare le cornici di analisi su scale assai differenti. Proviamo a chiarire questo aspetto con un esempio, scelto tra i molti disponibili e ricordati da Russell nella sua monografia (tra cui, ad esempio, elefanti e cacciatori, salmoni e comunità di pescatori, ecc. Per chi fosse interessato, qui si parla di un esperimento in laboratorio sull’osservazione dell’evoluzione in E. coli).

Nel 1958, proprio quando Braudel lamentava l’ingabbiatura dello storiografo (e della storia stessa) all’interno di monolitiche e pressoché insormontabili griglie biologico-geografiche, era all’opera un mirabile esempio di inseguimento, o di “corsa alle armi”, tra evoluzione culturale (che è sempre frutto della storia profonda biologica) ed evoluzione genetica: la resistenza sviluppata dai batteri (nel nostro caso, lo stafilococco, gen. Staphylococcus) agli antibiotici individuati e utilizzati da H. sapiens. Russell ha delineato sinteticamente nove passaggi che rendono conto di un pressoché eterno inseguimento o confronto-scontro tra geni e cultura – insomma, il materiale dell’evoluzione tout court: geneticamente, le popolazioni di stafilococco evolvono l’abilità di infettare le popolazioni umane, ma queste ultime, culturalmente, approdano alla penicillina (nel 1943). Allora, sempre impegnati in ogni sorta di malvagio intrigo come nel cartone animato degli anni Ottanta Siamo fatti così, gli stafilococchi evolvono geneticamente la resistenza alla penicillina nel 1946. Grazie alla loro capacità di individuare e decostruire i rapporti di causa ed effetto e alla condivisione culturale di informazioni simboliche tramite l’esternalizzazione di contenuti scritti [5], tre anni più tardi gli esseri umani sostituiscono la penicillina con la meticillina ma gli stafilococchi, sempre sul pezzo, evolvono la resistenza alla meticillina nel 1961. Tutto da rifare per gli esseri umani, che approdano alla vancomicina, resa inutilizzabile dal 1986 a causa dell’incapacità degli stafilococchi di adeguarsi ai precetti umanistici dell’immobilità braudeliana. E se nel 2001 il linezolid (Zyvox) è diventata la nuova arma di cui disporre, gli stafilococchi sono diventati resistenti a questo antibiotico dal 2001… e così via [5].

Vediamo un momento cosa capita. Il tasso di mutazione dei batteri, mentre si riproducono da un corpo ospite a un altro, produce talvolta e casualmente una resistenza all’antibiotico (all’inizio del Novecento quest’ultimo veniva ricavato da altri batteri e da funghi); quel ceppo mutato di batteri, magari aiutato da una non accorta terapia farmacologica, sopravvivrà e si diffonderà grazie al rapidissimo tasso di riproduzione dei suddetti batteri, a scapito degli altri conspecifici privi dell’eventuale mutazione.
Ora, la diffusione della malattia nelle popolazioni umane, a seconda delle peculiari distribuzione e frequenza, può diventare a cascata un evento religioso (specie se in tempi premoderni o in località scarsamente interessate dalla secolarizzazione), culturale, socio-politico, economico, finanziario, ecc. Pensiamo, ad esempio, alle campagne antivacciniste oggi in voga che, creando una breccia nell’immunità di gruppo, favoriscono la diffusione di malattie del tutto sotto controllo fino a poco tempo fa. Oppure, prima di qualunque terapia antibiotica, alla peste antonina, un evento cardine all’interno della crisi del III secolo e.v., con tutte le sue ripercussioni di lunga e lunghissima durata sulla (in)stabilità del sistema statale romano. Siamo di fronte a fattori storici con enormi ripercussioni su più livelli biologici, sociali o cognitivi. Ed ecco che l’epidemiologia delle patologie scivola senza soluzione di continuità verso un’epidemiologia delle rappresentazioni culturali. Non a caso la longue durée è stata associata allo studio della frequenza e distribuzione delle patologie nelle popolazioni umane (benché in modo metodologicamente desueto, scientificamente problematico e, come già nel metodo di Braudel, secondo prospettive di analisi essenzialmente statiche... ed ecco riemergere il paradosso della longue durée [6]).

Una comprensione profonda di questi fenomeni esige uno studio che abbia solide basi scientifiche e, soprattutto, impone un cambiamento di prospettiva notevole rispetto ai tradizionali strumenti di indagine. Perché la longue durée delle Annales è uno strumento prezioso che va riaggiornato e attentamente riadattato ancorando lo studio a una cornice temporale e scientifica assai più vasta di quanto gli storiografi non abbiano mai immaginato [7].
Lo studio della storia non può non prendere atto di questo cambiamento epocale. Come ha scritto David Christian, «Vedere la storia umana come parte di una storia molto più vasta inciderà sul modo in cui gli storici pensano la ricerca, sulle domande da porre, sul modo in cui collaborare [con le discipline scientifiche] e sul modo in cui essi giudicano il significato del sapere accademico» [8]. Ce la possiamo fare? Io credo di sì.

[1] Braudel 1973: 65.
[2] Ibidem.
[3] Russell 2011: 5.
[4] Ibidem.
[5] Russell 2011: 98.
[6] Sallares 2005; Sallares 2014: 255.
[7] Armitage e Guldi in press, dove si cita tra laltro Daniel Lord Smail.
[8] Christian 2010: 19.

Armitage, D. & J. Guldi (in press). “Le Retour de la longue durée. Une perspective anglo-saxonne [The return of the long durée: an anglo-american perspective]”. Annales. Histoire, Sciences sociales (69).

Braudel, F. (1973). “Storia e scienze sociali. La 'lunga durata'”. In Scritti sulla storia, 57-74. Milano: Mondadori. Pubblicato originariamente come Braudel, F. (1958). Histoire et sciences sociales: la longue durée. Annales. Histoire, Sciences Sociales, 13 (4), 725-753 DOI: 10.3406/ahess.1958.2781 (raccolto poi in Écrits sur l’histoire, Flammarion, Paris 1969).

Christian, D. (2010). The return of universal history. History and Theory, 49 (4), 6-27 DOI: 10.1111/j.1468-2303.2010.00557.x

Russell, E. (2011). Evolutionary History: Uniting History and Biology to Understand Life on Earth. Cambridge and New York: Cambridge University Press.

Sallares R (2005). Pathocoenoses ancient and modern. History and philosophy of the life sciences, 27 (2), 201-20 PMID: 16602486

Sallares R. (2014). “Disease”. In A Companion to Mediterranean History, edited by Peregrine Horden & Sharon Kinoshita, 250-262. Malden and Oxford: Wiley-Blackwell.

martedì 3 giugno 2014

Ma la storia non si può mica fare in laboratoROTFL”!

Stanchi di sentir dire che la scienza è il male assoluto che vuole distruggere la resistenza umanistica e ridurci tutti a bit e DNA? Stufi di lottare contro i cliché te(le)ologici in voga nella storiografia? Allora siete pronti a mettere via e riporre in cantina un bel po' di ciarpame storiografico.
Immagine dell'utente HornM201 da Wikimedia Commons.
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Se avete letto gli ultimi due articoli della serie dedicata alla storia della storiografia, dovreste ormai aver cominciato a riporre in una scatolone di quelli da trasloco, grandi e capienti, le nostre intuitive limitazioni cognitive che individuano antropomorfismo e agentività nel mondo naturale e che assegnano senso e significato trascendente negli eventi umani. Forse vi siete già lasciati alle spalle le ovvie (e false) teleologie edificanti, i progressionismi trionfali, quei punti Omega verso cui tenderebbe il cammino dell’universo, o i fumosi fideismi che assegnano alla spiritualità mistica (qualunque cosa si voglia intendere) il senso dell’evoluzione umana.
Benissimo! Ora dovreste essere pronti a ritornare alla ricerca storica fatta come si deve. Con i documenti e con la minuscola, perché le maiuscole sono abusate e sottolineano troppo di frequente magniloquenti vaniloqui (che tra l’altro è una notevole allitterazione). Il problema principale – sul quale insisto – è che molti storici si sono opposti all’uso dei metodi scientifici nelle analisi storiche, sostenendo che questi non sono adatti per la comprensione del comportamento umano, troppo complesso per essere posto sotto la lente “riduzionista” della scienza [1]. Quante volte mi è capitato di sentire in dipartimento frasi come la seguente: “Ma la storia non si può mica fare in laboratorio!”. Oppure, “Ma la mente umana non si può mica ridurre al cervello! La storia è libera dalle imposizioni biologiche!” /facepalm/... Ci sono in ballo dei fraintendimenti su che cosa diamine è la scienza grandi quanto un kaijū di Pacific Rim. E forse la lezione delle Annales non è bastata. Via quindi con un breve vademecum di chiarimento ad uso e consumo storiografico.

Le scienze fisiche e la biologia molecolare studiano i rispettivi campi di indagine attraverso l’esperimento in laboratorio, uno dei metodi più efficaci mai escogitati nella storia dell’umanità per studiare le relazioni di cause ed effetto in un setting controllato e sottoposto alla ripetizione dei risultati. Ciò nonostante, altri campi chiaramente scientifici e che hanno a che fare con il passato non possono permettersi tale privilegio: come hanno sottolineato Jared Diamond e James Robinson «non si può manipolare il passato» [2]. Anche quando questo fosse possibile, i mezzi per ottenere i risultati desiderati sarebbero immorali o quantomeno discutibili (come fondere un ghiacciaio per uno studio geologico [3], oppure far esplodere una stella [4]). In tale situazione si trovano tutte quelle discipline che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la storia, ossia «la biologia evoluzionistica, la paleontologia, l’epidemiologia, la geologia storica e l’astronomia» [5].
L’unico modo per ovviare a queste limitazioni e “fare scienza” è quello di «osservare, descrivere e spiegare il mondo reale, e includere le spiegazioni individuali in una cornice più ampia», attraverso «l’esperimento naturale», ovvero un rinnovato «metodo comparativo» [6]. innestato su coordinate scientifiche e biologiche [7]. Questo metodo, continuano Diamond e Robinson, «consiste nel confrontare – preferibilmente in modo quantitativo e con l’aiuto di analisi statistiche – sistemi diversi che siano simili fra loro sotto molti aspetti ma che differiscono in relazione ai fattori dei quali si vuole studiare l’influenza» [8]. Di fatto, in quest’ottica, le società umane del passato e del presente diventano esperimenti naturali in corso.
Occorrerebbe inoltre affondare le radici in una storia profonda milioni di anni, ed essere avvezzi allo studio primatologico e paleoantropologico per inquadrare evolutivamente la storia dei comportamenti umani, distinguendo attentamente (o ponendo l’analisi in termini critici in tutti i casi ove ciò sia possibile), tra omologia comportamentale veicolata dalla storia profonda in comune, e analogia dovuta all’attivazione convergente delle medesime risposte in ambienti simili. La comparazione scientifica del comportamento e della cultura degli esseri umani con l’universo primatologico, paleoantropologico e zoologico in senso lato modifica di per sé alcuni assunti disciplinari e umanistici ritenuti indiscutibili (quale una discontinuità più o meno assoluta tra uomo e animali), richiamando una rinnovata attenzione specifica nei confronti dei modelli e delle rappresentazioni culturali. Per essere adeguatamente spiegati, i pattern emergenti andrebbero quindi compresi in una più ampia cornice biologico-evoluzionista che si fondi sui presupposti delle ricerche cognitive (ma con la dovuta cautela, dato che «esistono tre o quattro specie idonee [al paragone] e queste sono filogeneticamente distanti sia le une dalle altre sia da noi» [9]). A loro volta, se inseriti nel contesto dei variabili network dell’organizzazione socio-politica, tali pattern possono rivelare peculiari strategie adottate dagli agenti storici e contribuire a chiarire la storia culturale, formando così l’oggetto di studio di una storiografia empiricamente verificabile grazie alle retrodizioni, ossia predizioni basate sul metodo scientifico e rintracciate in conseguenze già accadute nel passato (verificabili sulla base di nuovi documenti – o di dati già noti ma rianalizzati) [10].
Daniel Lord Smail ha ricordato in un recente articolo imperniato sull’accumulo patologico (o disposofobia), che questa storia profonda è anche una neurostoria, ossia uno studio della plasticità del sistema nervoso e di quello endocrino umano su di un livello temporale di lunga e lunghissima durata. Una plasticità dovuta alla continua niche construction da parte di Homo sapiens volta a modulare e modificare, non sempre intenzionalmente, il sistema corpo/cervello secondo le coordinate socio-culturali [11]. Nelle icastiche parole di Telmo Pievani,
«Gli organismi cambiano gli ambienti, che a loro volta cambiano gli organismi. Questo intreccio vale soprattutto per la storia naturale degli ominidi, che a un certo punto della loro storia, nelle varie specie del genere Homo, cominciano ad avere e a trasformare una nicchia non più soltanto biologica ma anche culturale» [12].
Questa è una posizione che evita le insidie delle storie a prova di falsificazione (che non è mai un bene) e ideate tautologicamente a tavolino dagli psicologi evoluzionisti della prima ora, senza rinunciare all’obiettivo di studiare il rapporto co-evolutivo tra natura e cultura [13].

Andando ancora più in profondità, lo studio multicausale e scientifico dei fenomeni storici [14] farà emergere pattern sempre più peculiari. Ciò è possibile perché non cambiano solo le domande con le quali la scienza si deve confrontare, ma con l’incremento delle conoscenze possono cambiare anche «i tipi di domande attraverso i quali si definisce l’indagine scientifica», ed è questa ciò che Mauro Ceruti aveva definito come la «sfida della complessità» [15]. Alcuni pattern emergenti difatti richiederanno una ristrutturazione sostanziale delle premesse generali del quadro di indagine o, quanto meno, un’attenzione rinnovata nei confronti di certe basi euristiche date per scontate o scartate a priori. Come ha scritto il paleontologo Niles Eldredge in una sua profonda riflessione sul ruolo della storia nell’ambito dei processi scientifici,
«Eventi storici ripetuti, che accadono nell’ordine dei secondi o in quello dei milioni di anni, accomunati da incredibili similarità sono i pattern – i fenomeni, i dati reali – di tutta la scienza. Sono i pattern che pongono le domande. E forse, controintuitivamente, sono ancora loro che per molti aspetti suggeriscono le risposte – le ipotesi esplicative, le teorie – a quelle domande. La scienza è un modo di vedere il mondo materiale e la percezione dei pattern ne è il cuore» [16].
Solo da pochi anni si è cominciato a porre un’attenzione particolare nei confronti della storia che lega i nostri vincoli comportamentali e le contingenze storico-culturali alla profondità temporale dell’evoluzione, e da ancora meno tempo si è cominciato a insegnare la Big History (sì, ha le maiuscole, ma solo perché è un titolo ed è in inglese! Quando il termine verrà utilizzato in italiano allora una minuscola non gliela leverà nessuno), una cornice narrativa scientificamente coerente con le scoperte più recenti che sfrutta l’attrazione naturale di H. sapiens per lo storytelling allo scopo di raccontare la storia del nostro taxon come una piccola casella nella griglia cosmologica del tempo che ha avuto inizio con il Big Bang, tredici miliardi di anni fa. «I racconti del passato che si focalizzano soprattutto sulle divisioni tra nazioni, religioni e culture stanno cominciando ad apparire provinciali e anacronistici – persino pericolosi», ha scritto David Christian, il principale sostenitore della Big History, «[p]ertanto, non è vero che la storia diventa vacua se considerata su vaste scale temporali. Oggetti familiari possono svanire, ma nuovi e importanti oggetti e problemi diventano visibili. E la loro presenza può solo arricchire la disciplina» [17]. Poi, se gli astrofisici sono riusciti a venire a capo di immani problemi per studiare la loro materia senza far esplodere nemmeno una stella, non venitemi a dire che la storia umana è comunque più complessa! Senza contare che le stelle non lasciano nemmeno documenti scritti dietro di loro…

Purtroppo, come ha acutamente notato Massimo Pigliucci a proposito del programma di ricerca diamondiano basato sugli esperimenti naturali di storia (in parte erede, dicevamo, della lezione delle Annales), «la ricerca storica potrebbe non svilupparsi lungo le linee suggerite da Diamond non perché non si possa fare, ma perché gli storici stessi – perlomeno, quelli appartenenti alla presente generazione – sembrano essere ostili all’idea di testare le loro ipotesi su basi empiriche» [18].
Ovviamente dietro la mente c’è l’evoluzione a fare capolino, e come sappiamo biologia e scienze naturali vengono viste con il fumo (umanistico) negli occhi: le distorsioni in chiave progressionista (no! Evoluzione non equivale a progresso!), il sempre presente movimento anticognitivista denunciato da Rita Astuti e Maurice Bloch per quanto riguarda l’antropologia (di cui abbiamo parlato qui), la questione della tabula rasa culturale nel mondo umanistico (di cui si discuteva a queste coordinate), e il postmodernismo storiografico (le cui tracce avevamo individuato qui), forniscono al quadro tinte forse ancora più fosche e tristi.
Come ha detto l’opossum Pogo, protagonista di una nota striscia a fumetti statunitense scritta e disegnata da Walt Kelly, forse un numero nutrito di storici dovrebbe cominciare a fare autocritica e ammettere che «abbiamo incontrato il nemico, e il nemico siamo noi».

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Epilogo sulla neurofobia
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L’ultimo numero di Isis, una blasonata rivista accademica peer-reviewed fondata nel 1912 e dedicata alla storia della scienza (per dire, al 2011 classificata ottava su 50 per Impact Factor nella categoria “History and Philosophy of Science”) [19], contiene una sezione speciale interamente dedicata alla neurostoria. Dei cinque contributi pubblicati (tra cui l’articolo di Daniel Lord Smail precedentemente citato), due assurgono a paradigma esemplificativo di quella patologia che potremmo definire come “neurofobia” [20], ossia il terrore umanistico (senza fondamento, sia chiaro) di essere ridotti, fagocitati ed eliminati dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze.
Il primo, dall’eloquente titolo retorico Neurohistory Is Bunk? (La neurostoria è una fesseria?), decostruisce la storia della ricerca storiografica influenzata dalle neuroscienze rintracciandone le radici nei movimenti cibernetici californiani della seconda metà del Novecento – con l’attuale agente letterario John Brockman come maître à penser dietro le quinte dell’intera operazione, impegnato nel diffondere la sua ignominiosa agenda di conquista del mondo umanistico [21] – mentre il secondo, citando Foucault a spron battuto, conclude appellandosi in modo apocalittico alla comune levata di scudi contro l’ennesimo assalto scientifico e riduzionista alla cittadella umanistica. Riporto in extenso l’explicit perché è un eloquente esempio di quella storiografia post-strutturalista che vede la scienza come agente negativo da combattere senza quartiere:
«[…] gli storici della scienza verranno marginalizzati se dovessero accettare in modo non critico questa neuro-svolta [neuro-turn], a causa della sua tendenza (in quanto prodotto e specchio dell’ordine neoliberale) volta a dissolvere gli esistenti confini disciplinari. Accettare la neuro-svolta equivale sia ad uscire da una prospettiva critica sia volgersi contro di essa (anche se impercettibilmente, poiché la neuro-svolta utilizza sia il linguaggio sia i vecchi tropi postmoderni). Pertanto, da tale prospettiva, la neuro-svolta è una tecnologia che lavora per rimodellare noi stessi, o per rimodellare il cuore delle nostre vecchie abitudini. Non dovrebbe essere respinta con leggerezza; coloro i quali possiedono l’esperienza per criticarla hanno il dovere professionale di farlo. Nessun impegno può essere considerato più vitale e urgente. La sopravvivenza della storia della scienza dipende da ciò» [22].
Perché superare gli steccati disciplinari secondo una prospettiva scientifica sarebbe un male? Quale giustificazione empirica avrebbe l’evocazione di una vieta distinzione tra cuore (fuor di metafora, la vecchia affidabile storiografia) e cervello (ossia la fredda e calcolatrice macchina cognitivista)? Perché mai individuare fantasmi capitalistici all’opera come longa manus dell’apparato tecnopolitico? Perché poi accettare la scienza dovrebbe equivalere a gettare il diritto di critica alle ortiche? Molte domande, nessuna risposta. Non mi sognerei mai di usare un acronimo derisorio nei confronti di questi ranghi serrati contro quel comune male riduzionista reo di mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa della ricerca storiografica ma, dato che il Guardian ha da pochissimo dedicato un articolo speciale al quarto di secolo compiuto dall’acronimo LOL con il consueto understatement britannico [23], si potrebbe anche essere tentati di farlo. Invece no, perché se nel titolo ho adottato un tono scherzoso (riguardante la prima parte di questo post), qui invece la questione è molto seria, ma esattamente per il motivo opposto e contrario a quello vagheggiato nel contributo testé citato.
Nessuno dei due articoli ricordati ha notato che Smail è uno storico di professione (specializzato nella medievistica di area franco-italiana), né che non si sognerebbe mai di ridurre o tantomeno di eliminare la ricerca storiografica (perché poi?). Nessuno dei due contributi alla discussione si è poi premurato di consolidare le posizioni critiche esposte con veemenza attraverso asserzioni scientifiche, e io non sono nemmeno riuscito a capire cosa c’entrasse Brockman (che nel libro del 2008 e nell’articolo di Smail pubblicato sulla stessa rivista non è nemmeno citato!). Ecco emergere quindi un doppio caso da manuale della fallacia dello straw man, o uomo di paglia: si prepara un feticcio da attaccare inventandosi nefaste ascendenze ideologiche, si confondono i piani (interpretazione dei documenti storici e storia contemporanea della storiografia), si collegano le asserzioni in modo non verificabile, si proietta il tutto sull’obiettivo da delegittimare, et voilà! Pronto per la rottamazione.
Pigliucci docet*. QED.

*: ve la ricordate questa citazione, vero? La ripetiamo? Ripetiamola: «La ricerca storica potrebbe non svilupparsi lungo le linee suggerite da Diamond non perché non si possa fare, ma perché gli storici stessi – perlomeno, quelli appartenenti alla presente generazione – sembrano essere ostili all’idea di testare le loro ipotesi su basi empiriche » [24].

[1] Sulloway 1998: 326.
[2] Diamond e Robinson 2011: 3.
[3] Ibidem.
[4] Sagan 2001: 310.
[5] Diamond e Robinson 2011: 3. Cfr. Sulloway 1998: 326-327.
[6] Diamond e Robinson 2011: 3.
[7] Sagan 2001: 309-310.
[8] Diamond e Robinson 2011: 3.
[9] Pigliucci 2010: 45.
[10] Eldredge 2002: 252, nota n. 13. Cfr. Turchin 2008: 35.
[11] Smail 2014: 113-114.
[12] Pievani 2014: 167.
[13] Ibi: passim.
[14] Diamond e Robinson 2011: 4-5.
[15] Ceruti 2009: 39.
[16] Eldredge 2002: 18.
[17] Christian 2011: 8.
[18] Pigliucci 2010: 53.
[19] Journals Ranked by Impact: History and Philosophy of Science. 2011 Journal Citation Reports. Web of Science (Science ed.). Thomson Reuters. 2012.
[20] Cfr. Macleod, Simpson e Pal: Preface, dove la neurofobia è descritta come il timore condiviso dagli studenti e dai neo-medici in neurologia riguardo al fatto di dover valutare le malattie neurologiche dei propri pazienti.
[21] Stadler 2014.
[22] Cooter 2014.
[23] Heritage 2014.
[24] Pigliucci 2010: 55

Ceruti, Mauro. (2009). Il vincolo e la possibilità. Milano: Raffaello Cortina Editore

Cooter, R. (2014). Neural Veils and the Will to Historical Critique: Why Historians of Science Need to Take the Neuro-Turn Seriously Isis, 105 (1), 145-154 DOI: 10.1086/675556

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sabato 31 maggio 2014

Et voilà! Il coniglio dal cappello, ovvero a cosa fare attenzione quando si tratta di metodologia nella ricerca storica

«Venghino signori, venghino! Le mirabolanti imprese di magia, prestidigitazione e relativismo storico postmodernista!».
Ok, forse la didascalia originale non recitava proprio così...
Immagine originale datata 1899 e restaurata digitalmente dagli utenti trialsanderrors e Morn di Wikipedia.
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Alla fine del post precedente (se non l’avete letto, eccolo qui), ci eravamo lasciati pensando a come il modello di studio storiografico invocato dal gruppo delle Annales si possa considerare ipso facto una scienza. Secondo alcuni commentatori, la questione è fuori discussione già in partenza. Immanuel Wallerstein, ad esempio, ha descritto nel modo seguente il modello braudeliano di una storiografia scientifica:
«la storia per Braudel era una scienza. Non aveva timore del termine “scienza”, premesso che uno sia in grado di comprendere come vada fatta la scienza, ossia in relazione con i dati reali. Si deve procedere dalla teoria ai dati e poi di nuovo alla teoria. Si deve continuare ad andare avanti e indietro fino a che, alla fine, non ne esce fuori qualcosa di plausibile» [1].
Attenzione, però, perché plausibile non significa veritiero o empiricamente fondato. Limitarsi ad una immane raccolta di dati non equivale a sperare che il pattern plausibile emerga da sé, come il proverbiale coniglio dal cappello: quali sarebbero i criteri precisi per arginare il wishful thinking mediato dagli apriorismi epistemologici e metodologici o dai bias psicologici che tendono a confermare la propria visione dei dati? Non è detto che il proprio punto di vista sia quello giusto.

Prima delle Annales, in effetti, la storiografia in quanto disciplina accademica esaminava i dati e giudicava i fatti storici sulla base di criteri aprioristicamente monocausali. John Arnold, nel suo breve volume introduttivo alla concezione disciplinare della storia (o, per dirla altrimenti, un libro dedicato alla storia della storia), ha scritto che lo studio della mentalité tipico delle Annales «è sorto come una via di fuga dal senso comune che informava l’approccio della storia politica, il quale assumeva che i re, i consiglieri e i governanti decidessero sulla base delle medesime basi razionali dello storico» [2]. Ora, se c’è una cosa che le scienze cognitive hanno confermato e dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio è proprio la decostruzione del mito dell’agente sociale (economico o storico) che opera sulla base della scelta razionale. E fin qui non ci piove, con buona pace di chi ancora usa la rational choice theory come paravento per giustificare la legittimità razionale di particolari scelte ideologiche o teologiche. Così come è palese affermare (con il senno di poi) che la storiografia ottocentesca dei primordi, presa tra gli strascichi del romanticismo misticheggiante e l’invenzione (e il furore) delle identità nazionali, non fosse poi molto oggettiva – e d’altra parte si può discutere quanto quella disciplina in fasce fosse piuttosto una Geistwissenschaft, nella quale la revisione dei dati rimane confinata all’interno dell’arena dei dibattiti e delle discussioni tipicamente umanistiche, che una Naturwissenschaft, ossia una ricerca basata sulla verifica matematica dei dati empirici e sulla costruzione di modelli [3].

Il punto è che nel periodo press’a poco coevo alla svolta delle Annales (fondate nel 1929) ha cominciato a far presa un certo relativismo storico che ha considerato come un miraggio quell’oggettività cui aspirava la storiografia fin dalla sua nascita come disciplina accademica. Insomma, cercare il fatto accaduto ed asseverarne la veridicità sarebbero una fata morgana: esistono i documenti che descrivono i fatti, non i fatti stessi, irrintracciabili, né tantomeno la “verità oggettiva”. Forse l’esempio più eclatante è quello fornito dalla storia delle religioni la quale, dopo un promettente inizio sotto l’egida dell’analisi empirica dei dati, è scivolata velocemente verso un approccio metodologico che, secondo Luther H. Martin, si è tradotto nell’«assemblaggio di un corpus fenomenologico di dati culturali troncati e decontestualizzati, la cui temporalità è stata scartata a favore di affermazioni sulla presunta manifestazione di una sacra realtà sui generis» [4]. Se il documento attesta che il santo ha levitato, allora il santo ha levitato, e se viene descritto che lo sciamano ha proiettato il suo corpo spirituale nell’aldilà (qualunque cosa significhi), allora l’analisi deve riportare il dato filologicamente. Che poi questa filologia abbia rappresentato la breccia per l’ingresso nell’accademia di ogni sorta di fideismi criptote(le)ologici, o di simpatie per il paranormale, è oggi un fatto appurato [5]. In questo caso, il matrimonio entusiastico con quei bias cognitivi tipici del senso comune, e che la ricerca storiografica dovrebbe invece sforzarsi costantemente di arginare e controllare, continua ancora oggi – e non a caso la sottodisciplina storiografica è entrata in una crisi probabilmente irreversibile [6]. Per quanto sorprendente, questo è solo un caso storiografico tra i molti.

Dopo la seconda metà del Novecento l’esplosione del modello post-strutturalista ha condotto alla diffusione intellettuale del variegato ambito postmodernista, i cui sviluppi più estremi hanno condotto a interpretare la scienza come lo strumento privilegiato dall’Occidente per gestire le relazioni di potere con il mondo intero, e l’immagine degli scienziati è diventata quella di agenti profondamente condizionati dai vincoli sociali e dalla cultura loro contemporanea. Lo studio scientifico del dato storico e la lezione delle Annales sono così naufragati.
Certo, anche nella scienza sono possibili manomissioni ideologiche, teologiche, fideistiche o politiche più o meno palesi, ma rendersi conto degli errori umani (anche di quelli commessi dagli scienziati, soggetti come tutti gli esseri umani a errori di valutazione) e, di conseguenza, decostruire e correggere le manipolazioni intenzionali non vuol però dire che la scienza sia da rifiutare tout court, come vorrebbero invece certe frange intellettuali postmoderniste. La sociologia della scienza, ossia il ritenere che le idee nascono e si diffondono in un determinato contesto sociale che le vincola e le veicola, è ormai un dato acquisito nelle analisi storiografiche, ma non si può sminuire il fatto che la maggior parte del post-strutturalismo umanistico abbia colpevolmente condotto agli eccessi questa tematizzazione, arrivando a ritenere tutta la scienza come una creazione intellettuale condizionata e perciò ontologicamente discutibile, non veritiera o del tutto superflua, e revisionando o negando la validità analitica degli schemi storiografici (e scientifici).

Ora, la revisione dei dati e dei modelli acquisiti non è solo legittima ma necessaria; senza scomodare Popper e Kuhn (per ora), si può semplicemente affermare che la revisione non deve travalicare i confini delle prove documentarie valutate con raziocinio scientifico (ossia, controllando i bias psicologici impliciti cui tutti, bene o male, siamo soggetti) e ricordando, come ha affermato Carl Sagan, che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Le quali, spesso e volentieri, mancano. Volere ardentemente che un determinato fatto abbia avuto luogo, anteponendo fede o apriorismi ideali e ideologici ai dati che si possiedono, non equivale a inverarlo! Come ha scritto Eva Cantarella a proposito dell’ipotesi di Marjia Gimbutas in merito ad un (idilliaco) matriarcalismo preistorico eurasiatico, «[…] la storia non è fatta di desideri. È scritta su documenti, su prove, o quantomeno su indizi, molti e concomitanti. Che nella fattispecie, purtroppo, sembrano insufficienti» [7].

Invece, molto più di quanto non abbia fatto il relativismo storico precedente, la breccia aperta dal postmodernismo si è rivelata difficilmente sanabile. Tutto questo, come hanno notato Michael Shermer e Alex Grobman in un volume lodevolmente impegnato nella demolizione scientifica dei fallaci presupposti epistemologici propugnati dai negazionisti della Shoah, è stato il “terreno di coltura” dei negazionismi storiografici più deleteri e vergognosi, dello scetticismo umanistico nei confronti della scienza (prendiamo solo la sconcertante diffusione dell’antivaccinismo) e del credito intellettuale concesso a quelle che altrimenti sarebbero pseudostorie e vaneggiamenti fanta-cospirazionisti senza diritto di cittadinanza nel sapere accademico [8]. Il quadro si è fatto molto confuso, e nel calderone postmodernista c’è finito tutto e il contrario di tutto.

Pensiamo all’intreccio nefasto tra le legittime e necessarie rivendicazioni dei diritti politico-sociali e le ideologie più retrograde (come quelle creazioniste e negazioniste). Le idee dell’antropologo nativo statunitense Vine Deloria Jr. rappresentano bene questo filone: secondo Deloria la creazione divina attestata nelle mitologie locali confermerebbe la presenza delle popolazioni native sul suolo americano da sempre (dove avrebbero convissuto con i dinosauri) e, dato che le mitologie sono tutte ugualmente valide, la scienza occidentale sarebbe una mitologia come le altre [9]. Chiaro, c’è dietro tutta una disgustosa pagina di sopraffazione, sterminio e conquista, ma perché reagire confondendo il doveroso impegno sociale con la negazione della scienza? Alan Sokal, citando un altro lavoro, ha commentato nel migliore dei modi possibili: «Non c’è nulla di veritiero, saggio, umano» nel garbuglio intenzionale dell’avversione contro ogni forma di ingiustizia e di oppressione con «l’ostilità verso la scienza e la razionalità (che è nonsense)» [10]. Ancora, la frangia più antiscientista del femminismo postmodernista ha reagito contro il maschilismo che ancora funesta la società occidentale affermando che la scienza sarebbe uno strumento di dominio androcentrico e niente di più (ne avevamo parlato qui qualche tempo fa). Richard Dawkins ha condensato bene l’eventuale risposta nei seguenti termini: «No, la ragione e la logica non sono strumenti maschili di oppressione, e ipotizzare che lo siano è un’offesa alle donne» [11]. Infine, si prenda il modello di Jared Diamond che recupera e aggiorna l’intuizione braudeliana e della scuole delle Annales riguardo all’analisi dei vincoli fisico-geografici e la riadatta in chiave ecologico-evoluzionista, evitando la trappola dell’essenzialismo e puntando sulla contingenza storica [12]. Anche qui, l’accusa postmodernista si è scagliata contro il determinismo ambientale (che negli ambiti storiografici dominati dall’idea della tabula rasa risuona nella stessa nota negativa che connota il determinismo genetico, come ha correttamente sintetizzato Massimo Pigliucci [13]), fino a raggiungere la veemenza spropositata di una recensione all’ultimo libro di Diamond intitolata con uno sconcertante turpiloquio [14], e ove le tesi di Diamond vengono retoricamente rilette (e distorte) alla luce della giustificazione scientifica della disuguaglianza mondiale imposta dal dominio borghese. Senza la minima pretesa di fornire contro-argomentazioni scientificamente valide (tra parentesi, la domanda non è come diamine sia possibile che un editoriale accademico venga intitolato con un insulto ad personam, quanto cosa può succedere quando si adottano i criteri delle pubblicazioni scientifiche per adornarsi del prestigio intellettuale senza però avere alcuna padronanza del processo di revisione).

Ovviamente il quadro descritto è una collazione generalizzante e discontinua di esempi non edificanti (e di certo anche il modello di analisi di Diamond non è del tutto esente da critiche, benché su di un livello scientificamente fondato [15]). Come dicevamo altrove, l’autocritica scaturita dal post-strutturalismo è stata un toccasana contro molti vieti preconcetti diffusi nel mondo umanistico per auctoritas imposta, per accondiscendente fiducia o per inerte pigrizia. Il decostruzionismo ha anche fornito gli strumenti intellettuali per smascherare le strategie di potere che si instaurano tra dominanti e dominati, per mettere a nudo certi schemi sociali relativi alla gestione dei rapporti di forza intellettuale e per disarmare le rivendicazioni metafisiche di determinate correnti ideologiche che possono infiltrarsi anche nella ricerca accademica. Il decostruzionismo, specialmente nell’analisi letteraria, si è poi rivelato utile per effettuare un’operazione di reverse engineering sui documenti del passato che possediamo: non sempre la realtà descritta nei documenti può essere presa per buona così come ci è stata tramandata, ma può essere stata manipolata intenzionalmente o inconsciamente. Quindi anche nel relativismo storiografico c’è certamente qualcosa da salvare.

Ma allora, qual è il rapporto corretto tra storia, ciò che è accaduto nel passato, e storiografia, ossia la descrizione di quanto è accaduto, e in quale modo è possibile superare la dicotomia tra pretesa di oggettività assoluta e relativismo degli agenti storici?
Questa volta la risposta è più facile e immediata, perché ci viene in soccorso uno schema sintetico prodotto da Shermer e Grobman, che riportiamo di seguito:
  1. «La storia esiste sia all’interno della mente degli storici che al di fuori di essa;
  2. «Gli storici scoprono e descrivono il passato, esattamente allo stesso modo in cui gli scienziati della natura scoprono e descrivono i fenomeni naturali;
  3. «Gli storici (e gli scienziati della natura) possono scoprire e descrivere una determinata frazione del passato tramite i dati che hanno a disposizione;
  4. «Poiché gli storici, come gli altri esseri umani, non possono liberarsi dai pregiudizi, il problema diventa la qualità e la quantità del pregiudizio. Con che metodi e con quali testimonianze gli scienziati – storici o sperimentali – giungono a particolari conclusioni? E in quale contesto culturale? Con i fondi di chi?
  5. «Dato il presupposto scientifico di fondo secondo cui tutti gli effetti nell’universo hanno una causa anche gli eventi incerti del passato devono avere una struttura causale;
  6. «Riconosciuta la natura oggettiva della scoperta e la natura soggettiva della descrizione, gli storici possono scoprire e descrivere questa struttura causale;
  7. «Il mestiere degli storici consiste nel presentare il passato come un’interpretazione provvisoria di “cosa effettivamente è avvenuto”, in base alle prove attualmente a disposizione, in maniera molto simile a ciò che fanno gli scienziati della natura con le prove del mondo naturale» [16].
A garanzia dell’eptalogo che dovrebbe adornare l’ingresso di ogni dipartimento universitario di storia che si rispetti (nelle cui aule troppo spesso risuonano interpretazioni apodittiche e just-so stories tautologiche) sta la valutazione scientifica della convergenza delle prove (o, se preferite la terminologia utilizzata dal filosofo della scienza William Whevell, “concordanza di induzioni”), che non è altro che la medesima tecnica impiegata da tutti gli altri scienziati che si occupano del passato per dimostrare che un dato avvenimento ha avuto luogo, quando è accaduto e in quale modo si è svolto [17].
Ferma tutto un momento! Allora esistono altri scienziati che si occupano del passato? Forse possono aiutarci con l’annosa questione delle previsioni basate su calcoli scientifici! Forse sì, e ce ne occuperemo nel prossimo post.

[1] Wallerstein 2009: 169-170.
[2] Arnold 2000: 99.
[3] Shermer e Grobman 2002: 60.
[4] Martin 2012: 156.
[5] Coyne 2014.
[6] Martin 2012: 166; Martin e Wiebe 2012.
[7] Cantarella 2010: 21.
[8] Shermer e Grobman 2002: 64.
[9] Cfr. Shermer, Grobman 2002: 309; Sokal 2010: 108-109.
[10] Sokal 2010: xv, nota n. 13; cit. da Albert 1996: 69.
[11] Dawkins 2002: 175.
[12] Pievani 2014: 215-234.
[13] Pigliucci 2010: 50.
[14] Correia 2013. Il libro è Diamond 2014.
[15] Pievani 2014: 219.
[16] Shermer e Grobman 2002: 68-69.
[17] Ibi: 70.

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Coyne, Jerry. (2014). Science is Being Bashed by Academics Who Should Know Better. New Republic, April 3. http://www.newrepublic.com/article/117244/jeffrey-kripals-anti-materialist-argument-promotes-esp

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giovedì 29 maggio 2014

1958, o quando la storia cercò di diventare una scienza

Placca parigina commemorativa dedicata a Fernand Braudel, che non è in Rue Fernand-Braudel ma al n° 59 di rue Brillat-Savarin, Paris 13 (l'arrondissement è però lo stesso, nell'improbabile caso ve lo steste domandando).
Fotografia dell'utente Mu da Wikipedia.
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Cosa c’entrano il Brasile e la Francia con il 1958 e con l’idea di studiare quantitativamente i dati storici? No, la risposta non è il 5 a 2 subito dalla nazionale francese ad opera del Brasile di Didi, Garrincha e Pelé, durante la semifinale del campionato mondiale di calcio svedese di quello stesso anno e disputatasi presso il Råsundastadion di Solna alle h. 19:00 del 24 giugno (per la cronaca, e per la gioia dei 27.100 spettatori presenti, con tanto di tripletta di Pelé al 52’, al  64’ e al 75’).
Per rispondere dobbiamo partire da una citazione.

Come ha ricordato poco tempo fa Massimo Pigliucci, «La storia, dicono alcuni, è una dannata cosa dopo l’altra. Ma è davvero così? Di tanto in tanto vengono proposti tentativi per rendere la storia più scientifica attraverso l’introduzione di teorie generali che spieghino il suo sviluppo» [1]. Il bilancio del rapporto tra storia e scienza è però quasi tutto in negativo. I modelli “scientifici” risalenti al primo Novecento e applicati alla storia sono stati giustamente demoliti da Karl Popper: dati alla mano, tutte le teleologie ideologiche di stampo politico (per tacere dei fideismi teologici) e la psicoanalisi nelle sue varie reincarnazioni hanno sonoramente fallito come metodologie di analisi storiografica. Insomma, fermo restando la validità di alcuni assunti economici nello studio dei rapporti sociali, se prendiamo come discrimine il confine tra scienza e pseudoscienza questi metodi si sono collocati fermamente sul secondo versante. Alcuni modelli di analisi storiografica più recenti promettono comunque risultati ben più consistenti dal punto di vista scientifico, tra cui citiamo quelli portati avanti da Jared Diamond, Peter Turchin [2] e Daniel Lord Smail [3].

Alla fine degli anni Venti del secolo scorso, ben prima delle armi, dell’acciaio e delle malattie di Diamond, e ben prima della cliodinamica di Turchin e della neurostoria/storia profonda di Smail, però, c’era una rivista che si chiamava Annales d’histoire économique et sociale. E les Annales erano il regno della storia totale.
E la storia totale era l’ingegnoso tentativo di scavalcare la tradizionale scansione evenemenziale e nazionalista dei fatti storici come una sequenza interminabile e inossidabile di personaggi politici in bilico tra l’arte della diplomazia e l’esercizio della guerra. Per fare ciò, gli studiosi afferenti alla scuola delle Annales (in pratica il non plus ultra dei manuali di storia: Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel) chiamarono in soccorso geografia, sociologia, psicologia e, soprattutto, i dati quantitativi e la costruzione di modelli. Il tutto incentrato sullo studio della lunga durata, ossia sugli eventi a lungo e lunghissimo termine piuttosto che su sui singoli eventi, un “tempo antropologico”, secondo la definizione di André Burguière, «composto da sovrapposizioni, nuovi inizi e talvolta innovazioni improvvise» [4]. (2009: 61). Questa idea della storia come lunga durata è difatti una “storia della/delle mentalità”, come era in voga dire verso la metà del Novecento, e che oggi in parte potremmo tradurre con evoluzione culturale ed epidemiologia delle rappresentazioni. Chi più di tutti ha perfezionato teoricamente questo approccio è stato Braudel, il quale – come ha ricordato Immanuel Wallerstein – non aveva timore di impiegare il termine “scienza” per definire la sua idea di storia basata sull’analisi quantitativa dei dati allo scopo di individuare pattern e di costruire modelli euristici esplicativi [5].

La controparte di questa imponente e ambiziosa revisione dell’approccio storiografico d’antan è stata, nell’impostazione braudeliana, l’erezione di uno steccato deterministico, le note prisons de la longue durée, ossia i «quadri mentali» che bloccherebbero il tempo storico-culturale in una «semi-immobilità» intorno alla quale graviterebbero tutti gli altri livelli di analisi [6].
All’epoca, correva il 1958, l’espressione era stata utilizzata da Braudel per indicare una struttura, ossia
«una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo. Talune strutture, vivendo a lungo, diventano elementi stabili per un’infinità di generazioni: esse ingombrano la storia, ne impacciano, e quindi ne determinano il corso. Altre si sgretolano più facilmente, ma tutte sono al tempo stesso dei sostegni e degli ostacoli. Come ostacoli, esse si caratterizzano come dei limiti, in senso matematico, dei quali l’uomo e le sue esperienze non possono in alcun modo liberarsi. Si pensi alla difficoltà di spezzare certi quadri geografici, certe realtà biologiche, certi limiti della produttività, ovvero questa o quella costrizione spirituale: anche i quadri mentali sono delle prigioni di lunga durata» [7].
A queste prigioni mentali si assocerebbero i limiti imposti dalle condizioni fisico-geografiche (evidente nel suo magnum opus intitolato Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II) [8]. Ad esempio, lo storico francese afferma che il «condizionamento geografico» è un carcere fatto di «climi, di vegetazioni, di popolazioni animali, di culture, in un equilibrio costruito lentamente dal quale [l’uomo] non si può allontanare senza rischiare di rimettere tutto in discussione» [9]. Lo studio dei vincoli naturali con cui ciascuna società umana ha dovuto e deve confrontarsi è la strada percorsa anche nelle analisi di Jared Diamond (il quale non a caso cita Braudel nella bibliografia al termine di Armi, acciaio e malattie), e che in sostanza si ricollega alla vituperata questione della tabula rasa e dell’assoluta libertà umana in voga nel mondo umanistico e nelle scienze sociali. Pigliucci riassume molto efficacemente la questione:
«Gli esseri umani hanno certamente la capacità di decidere e alterare il corso delle proprie azioni, ma né le decisioni né le azioni possono essere indipendenti dalla costituzione genetica dell’umanità o dalle condizioni ambientali nelle quali gli esseri umani vengono a trovarsi. Per dirla altrimenti, gli esseri umani non sono esenti dalle leggi standard della causalità» [10].
Il problema grosso modo non è questo, bensì l’idea braudeliana dei vincoli mentali come prigioni, vale a dire i «vecchi modi di pensare e di agire», e «gli schemi resistenti, duri a morire, talvolta contro ogni logica» [11]. Allora, se l’accento cade sulla stasi culturale, quando, come e perché cambiano le idee, a parità di tutti gli altri vincoli? Dove trovare e come giustificare quelle «innovazioni improvvise» ricordate più sopra? Di fronte a una prospettiva storica di lunghissima durata non si può certo affermare che la stasi sia l’elemento caratterizzante. Siamo quindi ancora nei limiti degli altri modelli denunciati da Popper? Risposta difficile: sì, perché se intese in un senso assoluto queste idee di staticità assoluta e ingabbiante sono imprecise, e no, perché lo storico aveva comunque intuito una possibile strada da percorrere.

Arrivato a comprendere che «Ogni “attualità” racchiude dei movimenti di origine e ritmo diversi: il tempo di oggi risale nel contempo a ieri, ad un passato più lontano e ad uno remotissimo» [12], Braudel non poteva però trovare accordo con l’analisi del «tempo breve» condotta dalle sociologia, psicologia e economia del suo tempo [13] innanzitutto perché quelle discipline non erano scientificamente attrezzate all’epoca per poter sostenere il confronto desiderato, ma anche a causa dell’atteggiamento strutturalista condiviso dallo storico che in sostanza svalutava il singolo o l’evento per concentrarsi su lunghissime catene evenemenziali [14] (talvolta sposando le tesi psicologico-psicoanalitiche legate a una non meglio definita «psiche collettiva, presa di coscienza, mentalità o attrezzatura mentale») [15]. L’unica possibilità futura per l’analisi del «tempo breve» e delle sue interazioni con le «prigioni della lunga durata» era promessa della «scienza della comunicazione, una formulazione matematica di strutture quasi atemporali. Quest’ultimo procedimento, il più nuovo di tutti, è evidentemente l’unico che possa veramente interessarci» [16]. Ma che cosa intendeva Braudel con questo nuovo «procedimento» matematico caratterizzato da «strutture quasi atemporali»?

Per capire ci dobbiamo spostare nel Brasile. Non per i mondiali di calcio del 2014, ma negli anni ’30 del secolo scorso, e più specificamente in quel dell’Università di San Paolo, dove Braudel aveva conosciuto Claude Lévi-Strauss [17].
Laggiù Lévi-Strauss aveva iniziato a studiare le mitologie locali, i cui componenti avrebbe poi scomposto e ricondotto alla ricerca del soggiacente sistema elementare e atemporale, considerato dall’antropologo strutturalista come la manifestazione della cognizione umana funzionante con il minor numero di vincoli esterni e culturali e perciò, nella sua ottica, la più adatta a rivelare le strutture neurofisiologiche soggiacenti [18]. In pratica, a partire dagli output culturali, Lévi-Strauss intendeva comprendere la struttura neurocognitiva di base e universale (ossia, secondo l’ipotesi strutturalista, l’organizzazione dei codici binari elementari che starebbero a monte dello storytelling mitografico mondiale, del tipo arcinoto crudo/cotto, freddo/caldo, ecc.), e ciò era esattamente il contrario di quanto avrebbero fatto le neuroscienze a partire dalla metà del Novecento. Non a caso il modello proto-cognitivo binario lévi-straussiano è stato falsificato ma, come ha scritto di recente Pascal Boyer, i precursori delle scienze cognitive «possono essere curiosamente scorretti nelle loro conclusioni e del tutto ammirevoli nelle loro ipotesi. Lévi-Strauss è stato certamente entrambi» [19].
Ecco, oltre all’elaborazione statistica e quantitativa dei dati d’archivio, quando Braudel scrive dei quadri “matematici” egli si riferisce anche a simili modelli strutturalisti. Quindi, per riprendere la doppia risposta di poc’anzi: la teoria cognitiva a monte del modello strutturale braudeliano rischia di fallire come gli altri tentativi volti a spiegare la storia in modo scientifico, ma nel contempo ha fallito in modo interessante, per così dire, ossia indicando una intrigante possibilità. Lo stesso si può dire di Lévi-Strauss. Come ha scritto Darwin nel 1871 al termine dell’Origine dell’uomo, «Notizie false sono nocive ai progressi della scienza, poiché spesso si sono credute per lungo tempo; ma ipotesi erronee, se surrogate da qualche prova, fanno poco danno, in quanto chiunque si può prendere il piacere di dimostrare la loro falsità; e ciò fatto, si chiude un sentiero che porta all’errore, mentre contemporaneamente si apre spesso la via alla verità» [20].

Ora, appurato che il quadro braudeliano relativo alla cognizione umana è giocoforza desueto, si può dire che questa idea di studiare la stasi culturale sulla base della cronologia storiografica e delle costanti psicologiche delle menti umane con tutti  loro vincoli, abbia passato oggi il testimone (mutatis mutantis) alle scienze cognitive [21]. Queste discipline si fanno le moderne portatrici e innovatrici di quella longue durée che fu tipica dell’impostazione storiografica novecentesca delle Annales, le cui note “prigioni” potremmo tradurre oggi concettualmente, sulla scorta di un’intuizione di Anders Lisdorf, con “vincoli (co)evolutivi della cognizione umana” [22] e leggere come il livello mesostorico teorizzato da Jesper Sørensen di cui si parlava in quest’altro post.

Resta però da valutare attentamente un importate corollario del lascito braudeliano, ossia il fatto stesso che la storia possa essere considerata ipso facto una scienza. Ma di quale tipo sarebbe? Quale possibilità di fare previsioni scientifiche avrebbe un orientamento storiografico secondo la prospettiva braudeliana? La storia può fare previsioni sulla base di regole fisse? O, per dirla altrimenti, davvero tutte le scienze possono fare previsioni? E in quale modo? Di tutto questo, e di altro ancora, ci occuperemo nei prossimi post.

Insomma, quando inizieranno le partite di calcio del mondiale brasiliano, in televisione a orari impossibili (causa fuso orario), potrete fare gli snob, seguire questo blog e leggervi un bel post di questa serie, per di più con la coscienza calcistica a posto, sapendo che anche Lévi-Strauss ha commentato di pallone [23].

[1] Pigliucci 2010: 46
[2] Ibi: 54.
[3] Smail 2008.
[4] Burguièr 2009: 61.
[5] Wallerstein 2009: 169-170.
[6] Braudel 1973: 68.
[7] Ibi: 64.
[8] Wiebe 2011: 167-168.
[9] Braudel 1973: 64.
[10] Pigliucci 2010: 50.
[11] Braudel 1973: 67.
[12] Ibi: 69.
[13] Ibi: 71.
[14] Cfr. Wiebe 2011: 168.
[15] Braudel 1966: 35.
[16] Braudel 1973: 70.
[17] Wallerstein 2009: 159.
[18] Martin 2008: 313.
[19] Boyer 2013: 175.
[20] Darwin 2013: 1312.
[21] Cfr. Lisdorf 2011: 89.
[22] Ibidem.
[23] Lévi-Strauss 2010: 43.

Boyer, Pascal. 2013. Explaining Religious Concepts: Lévi-Strauss the Brilliant and Problematic Ancestor. In Xygalatas, Dimitris e William W. McCorkle Jr. (eds.). 2013. Mental Culture: Classical Social Theory and the Cognitive Science of Religion. Durham and Bristol, CT: Acumen, pp. 164-175

Braudel, Fernand. 1973. Storia e scienze sociali. La “lunga durata”, in id., Scritti sulla storia. Milano: Mondadori, pp. 57-74 (ed. orig. Braudel, F. (1958). Histoire et Sciences sociales : La longue durée Annales. Histoire, Sciences Sociales, 13 (4), 725-753 DOI: 10.3406/ahess.1958.2781 ; poi raccolto in 1969. Écrits sur l’histoire. Paris: Flammarion)

Braudel, Fernand. 1966. Il mondo attuale, vol. 1. Torino: Einaudi (ed. orig. 1963. Le monde actuel, en collaboration avec S. Baille, R.Philippe, Paris: Belin)

Burguièr, André. 2009. The Annales School: An Intellectual History. Ithaca: Cornell University Press (ed. orig. 2006. Lécole des Annales: une histoire intellectuelle. Paris: Odile Jacob)

Darwin, Charles Robert. 2013. L’origine delluomo e la selezione sessuale. In id., Lorigine delle specie, Lorigine dell'uomo e altri scritti sull'evoluzione. Roma: Newton Compton (1994 1a ed.; ed. orig. 1871. The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex. London: John Murray)

Lisdorf, Anders. 2011. Prisons of the Longue Durée: The Circulation and Acceptance of Prodigia in Roman Antiquity, in Martin, Luther H. e Jesper Sørensen (eds.), Past Mids: Studies in Cognitive Historiography. London-Oakville: Equinox, pp. 89-106

Lévi-Strauss, Claude. 2010. Il pensiero selvaggio. Milano: il Saggiatore. (1965 1a ed.; ed. orig. 1962. La pensée sauvage. Paris: Plon)

Martin, Luther H. 2008. Do Rituals Do? And How Do They Do It? Cognition and the Study of Ritual. In Braun, Willi e Russell T. McCutcheon (eds.), Introducing Religion: Essays in Honor of Jonathan Z. Smith. London-Oakville: Equinox, pp. 311-325

Pigliucci, Massimo. 2010. Nonsense on Stilts: How to Tell Science from Bunk. Chicago-London: The University of Chicago Press

Smail, Daniel Lord. 2008. On Deep History and the Brain. Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press

Wallerstein, Immanuel. 2009. Braudel on the Longue Durée: Problems of Conceptual Translation. Review (Fernand Braudel Center) (32) 2: 155-170

Wiebe, Donald. 2011. Beneath the Surface of History?, in Martin, Luther H. e Jesper Sørensen (eds.), Past Minds: Studies in Cognitive Historiography. London-Oakville: Equinox, pp. 167-177