domenica 19 maggio 2013

La sopravvivenza della religione è in pericolo? Why Religion Is Natural and Science Is Not di Robert N. McCauley #4

Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
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Il terzo punto delle conclusioni di Why Religion Is Natural and Science Is Not (per le puntate precedenti si veda quiqui e qui) è incentrato su due argomenti: la «campagna contemporanea contro la religione, condotta sulla scorta dell’ammirazione per la scienza e per la razionalità scientifica» [1] in primo luogo da parte di Richard Dawkins, Daniel Dennett, Sam Harris e Cristopher Hitchens (1949-2011), e le instancabili apologie proposte in ambito religioso. Il giudizio di McCauley sull’utilità di queste due attività è il seguente: sulla base di quanto detto finora e tenendo sempre presente il punto di vista cognitivo sulla questione del rapporto tra scienza e religione proposto da McCauley, «poiché la religione è subordinata alle condizioni materiali e culturali, essa può crescere o calare, ma non sparirà mai. Le campagne per farla sparire non sortiranno effetti; opporsi a quelle campagne non è necessario» [2].
Dunque, sintetizzando:
3. La scienza in quanto tale non pone alcun pericolo per la sopravvivenza della religione
McCauley non intende affermare che non esistano conflitti tra le due posizioni, ma semplicemente che le basi per cui egli sostiene che la scienza non pone alcun problema per la religione sono assai diverse da quelle elaborati da Gould (ricordati qui) [3]. La «futilità della polemica antireligiosa», come la definisce McCauley, è la controparte della «tragedia del teologo» di Boyer: per quanto tale polemica possa aiutare singoli individui o gruppi di credenti a porre in discussione la loro aderenza prima scontata ad una qualche credenza o forma di appartenenza religiosa, essa non riuscirà a cancellare le idee delle comunità religiose nel loro insieme. Anche se vi dovesse riuscire, nel lungo periodo, a causa dei sistemi cognitivi maturativamente naturali, nuove forme di religiosità si ripresenteranno non appena ne avranno l’occasione («i fantasmi, ad esempio, sembrano essere una forma ricorrente in tutte le culture»). [4]
Le percentuali che i sondaggi di opinione (pur considerando che si tratta di dati da valutare attentamente), rivelano ad esempio che, con la significativa eccezione dei paesi scandinavi (che mostrano le più basse percentuali di affiliazione religiosa e il livello di qualità della vita più elevato), altrove la situazione presenta tratti comuni: se negli Stati Uniti decine di milioni di persone credono nei fantasmi (41%) e nelle streghe (31%), così come in nozioni più tradizionali come miracoli (79%) e angeli (75%) – e il titolo di studio non sembra influire significativamente su simili ed eventuali credenze – in Cina, benché meno del 10% degli intervistati si dica buddista, più della metà della popolazione ha pregato un Buddha o un bodhisattva nell’ultimo anno [5].

Due punti che riepilogano l’analisi di McCauley sono i seguenti:
  1. «dati tempo e ingegnosità teologica sufficienti, non esiste scoperta o affermazione scientifica che i teologi, e pertanto le religioni dottrinali, non possano adeguare», manipolare e adattare alle proprie dottrine; è un punto molto importante poiché risponde all’impossibilità di fornire prove empiriche dell’esistenza degli dèi nei quali questi specialisti religiosi credono; 
  2. La stabilità dei pattern religiosi (pratiche, idee, credenze, ecc.) nel tempo e nello spazio dimostra una variazione minima dei contenuti, che contrasta decisamente con le nozioni decisamente controintuitive della scienza e spesso con talune affermazioni teologiche ufficiali; si tratta di idee «buone da pensare» che raggiungono il livello cognitivo ottimale tale per cui viene garantita la loro stabilità [6].
Ora, nonostante McCauley si dichiari «comprensivo» nei confronti dell’eliminazione del «rispetto pubblico e automatico che viene accordato alle religioni e alle credenze religiose», dice di non nutrire grandi speranze nella possibilità che si possa far definitivamente «evaporare la cultura della credulità», per utilizzare un’espressione di Daniel Dennett [7]. Questo perché i critici contemporanei della religione dal punto di vista scientifico, per quanto possano aver avanzato posizioni di inestimabile valore, non hanno colto le «tre dinamiche cognitive che influenzano la relazione tra scienza e religione» [8]. In quanto ferventi ammiratori della scienza, essi:
  1. «sottostimano l’attrattiva delle rappresentazioni modestamente controintuitive nei confronti della mente umana»;
  2. «sottovalutano la facilità con la quale tali rappresentazioni religiose vengono acquisite ed impiegate»;
  3. «sottovalutano l’incredibile difficoltà e i costi che derivano dall’apprendimento e dalla ricerca scientifica» [9].
L’idea della sostituzione tout court del pensiero mitico-religioso con uno di tipo razionale e scientifico si basa anche su fraintendimenti cognitivisti. McCauley corregge difatti Merlin Donald (qui ulteriori informazioni sull’opera di Donald), quando questi afferma che «molto dopo l’invenzione di sistemi di scrittura altamente efficienti, e molto dopo che l’importante ruolo della scrittura nel governo e nel controllo delle attività umane si fu affermato, il suo uso (e l’uso delle capacità ideografiche [visuographic in originale. NdA] in generale) rimase subordinato al pensiero mitico e alle capacità narrative» [10]. Come nota giustamente McCauley, non è esistita alcuna cesura significativa tra un modello di cognizione arcaica e uno attuale: poiché le capacità cognitive maturativamente naturali soggiacciono non solo al pensiero mitico e al talento narrativo ma all’«intera gamma di rappresentazioni e processi che informano la cognizione religiosa quotidiana» [11], ciò che Donald etichetta come pensiero mitico e talento narrativo sono tanto presenti oggi quanto nell’antichità remota. Per dirla altrimenti, le capacità riflessive derivate dall’alfabetizzazione si aggiungono a quelle ma «non sostituiscono nulla» [12].

continua...

[1] Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 244.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 247.
[4] Ivi, p. 248.
[5] Ivi, pp. 248-249. I riferimenti bibliografici di tali dati sono reperibili in ivi, p. 300, note n. 39-44.
[6] Ivi, pp. 249-250.
[7] Ivi, p. 251 (cit. da Daniel C. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale, Raffello Cortina Editore, Milano 2007, p. 360 [ed. orig. Breaking the Spell: Religion as a Natural Phenomenon, Viking Press, New York 2006]). La frase completa recita: «La pubblicità ingannevole rimane pubblicità ingannevole, e se cominciamo a dire che le organizzazioni religiose sono tenute a rendere conto delle loro affermazioni – non portandole in tribunale, ma sottolineando spesso, con la voce ferma dei dati di fatto, che queste affermazioni sono ovviamente ridicole – riusciremo forse, a poco a poco, a far evaporare la cultura della credulità» (da Rompere l’incantesimo, cit., p. 360).
[8] R.N. McCauley, Why Religion Is Natural..., cit., p. 251.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem (cit. da Merlin Donald, L’evoluzione della mente, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 403 [Garzanti, Milano 1996, 2004; ed. orig. Origins of the Modern Mind: Three Stages in the Evolution of Culture and Cognition, Harvard University Press, Cambridge 1991]).
[11] Ibidem.
[12] Ibidem. La sottolineatura appartiene a McCauley. La critica a Donald ricorre a p. 276.

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